Nel day after dopo la direzione di fuoco del Pd, dove lunedì 4 aprile Gianni Cuperlo ha menato il fendente più duro (“Tu, Matteo non hai la statura del leader ma coltivi l’arroganza dei capi”), tra i fedelissimi dalemiani rimasti si smentisce seccamente: “Non c’è Massimo dietro l’intervento di Cuperlo”. Il sospetto era nato dopo che il venerdì precedente alla direzione, il primo aprile, proprio il giorno dopo le dimissioni dal governo di Federica Guidi, D’Alema e il suo ex fedelissimo assistente ai tempi della Bicamerale per le riforme e di Palazzo Chigi hanno a lungo conversato, mangiando un tramezzino, all’ora di pranzo alla buvette di Montecitorio.
Era forse la prima volta che l’ex premier rimetteva piede alla buvette in questa legislatura che lo ha visto rottamato da Renzi. E forse anche una delle rare volte in cui D’Alema e Cuperlo sono riapparsi insieme in pubblico dopo che l’allievo aveva preso un po’ le distanze dal maestro. Facce scure e indignate, i due si sono resi inaccessibili ai rari e un po’ malcapitati giornalisti di passaggio. Che Cuperlo, tornando nelle vesti di fido scudiero di D’Alema, ha provveduto ad allontanare con sguardi eloquenti della serie: “Come osate?”. Per un po’ chi c’era assicura che sembrava di essere tornati quasi a vent’anni fa, quando “Gianni” era l’ombra, gentile ma ferrea, di “Max”. Ma non era affatto un pesce d’Aprile. Cuperlo di strada ne ha fatta da quei tempi e certamente sarebbe un po’ ridicolo pensare che abbia scritto quell’intervento sotto dettatura, proprio lui, che era il ghost writer di D’Alema, al quale sarebbero da attribuire titoli di libri celebri come “Un paese normale” (Mondadori).
Ma che entrambi condividano lo stesso grado di anti-renzismo è ormai nei fatti. Se si va a riguardare l’intervista bombastica concessa da D’Alema al Corriere della sera il 10 marzo scorso, si ritrovano molti dei concetti fondamentali usati da Cuperlo nel suo intervento e anche alcune identiche accuse. Entrambi hanno evocato la scissione, entrambi, maestro ed allievo, hanno accusato il vertice Pd di “arroganza”; hanno sottolineato il problema della sinistra che continuerebbe comunque a esistere anche se verrà messa, a loro dire, nelle condizioni di dover lasciare il Pd. E infine (la minaccia più seria e pericolosa) hanno incominciato a ventilare, pur non dichiarandolo, un no al referendum d’autunno sulle riforme costituzionali, di cui Renzi, come ha confermato, ha fatto la madre di tutte le battaglie, dalla quale dipenderà la sua permanenza a Palazzo Chigi.
D’Alema e Cuperlo sembrano evocare “quel fai mi cacci” di Gianfranco Fini con Silvio Berlusconi. In ambienti della minoranza dem, sulla quale D’Alema sembra tornato ad esercitare un peso, le analogie con il centrodestra fioriscono: “Colpire le minoranza quando queste sono ininfluenti, come fece Berlusconi con i suoi alleati Fini e Pier Ferdinando Casini, non porta mai bene… Quella di Gianni è stata come un’ultima chiamata a Renzi…”. Che significa? Rispondono le stesse fonti a Formiche.net: “Significa che il partito deve tornare ad essere una comunità… e anche che personalità come D’Alema non possono essere lasciate fuori così… Agli stessi renziani non sono piaciute quelle lacrime di Federica Mogherini (alto rappresentante della politica estera Ue, il ruolo per il quale era in predicato D’Alema) all’indomani della strage di Bruxelles…”.
Intanto il sì al referendum sulle trivelle del 17 aprile la minoranza del Pd lo potrebbe far diventare un antipasto di quello costituzionale dove potrebbe davvero far correre rischi al premier e segretario del Pd, tanto più se dovesse ritrovarsi oggettivamente alleata della Lega e dei Cinque stelle e Forza Italia. Ma con così tanto variegata compagnia diventerebbe un po’ difficile per gli anti-renziani (tanto più se fossero del calibro di D’Alema ma anche di quello dell’ex premier Enrico Letta) distinguere le ragioni di un loro eventuale no. Le ripercussioni più immediate potrebbero essere alle elezioni amministrative. D’Alema ha già detto in Tv a “Otto e mezzo” di non essere sicuro che voterà il candidato del Pd Roberto Giachetti. E sempre, in sintonia con il suo ex allievo Cuperlo, ha definito Renzi “sprezzante” e “lacerante”.
Nel quartier generale renziano, si fa però notare che sempre “in tredici (i voti contro Renzi alla direzione, ndr) in direzione sono rimasti”. “Solo i toni sono cambiati”, spiega Ernesto Carbone, della segreteria del Pd, in sintonia con quanto affermerà poco dopo il ministro Maria Elena Boschi. Già, quell’affondo al veleno di Cuperlo (“Non sei un leader”) forse il premier non se lo aspettava davvero. E questo proprio alla direzione più difficile.