Uomo pacifico, Alessandro Plateroti del Sole 24 Ore non ha saputo trattenersi e, richiesto dal conduttore televisivo di un commento sulla rumorosa intervista a Piercamillo Davigo sul Corriere della sera del 22 aprile scorso, ha parlato senza giri di parole di una pura e semplice ricerca di visibilità del già “dottor Sottile” di Mani Pulite.
Che l’intervista di Davigo volesse fare soprattutto rumore è evidente, basta guardare al tono e alla fraseologia delle dichiarazioni del nuovo presidente della Anm, prive di ogni sottigliezza e dirette esclusivamente a provocare reazioni e quindi ulteriore rumore.
È lecito attendersi che anche le parole di Davigo evaporeranno, nel giro di qualche settimana, dal capace calderone nel quale si cucinano le polemiche interne, unico apprezzabile prodotto del sistema massmediatico nazionale che, quando non ha altro modo di tenere alta la pressione si mette in gioco in prima persona.
Una delle regole fondamentali di questa macchina del vapore è il rigoroso accantonamento di ogni considerazione nel merito delle parole che danno vita alla logomachia, e questo nel presupposto che il merito non presenta nessun interesse per il pubblico (un po’ come con l’opera lirica, dove pochi riescono a distinguere le parole mentre quasi tutti sono attratti dalla qualità della musica e delle ugole).
Le reazioni all’intervista sono state di maniera, oppure assolutamente banali. Il vicepresidente del Csm ha ex officio commentato che non c’è bisogno di ulteriori conflitti tra politica e magistratura, molti hanno osservato che non tutti i politici sono ladri, Beppe Grillo ha dato la propria solidarietà (?) a Davigo, Cantone ha posto in evidenza le non poche esagerazioni contenute e così via. Plateroti, come si ricordava, ha metaforicamente gettato l’intervista nel cestino della carta straccia, ciò che è del tutto comprensibile ma non rende il giusto merito all’intervista. Perché a ben vedere sotto il fumo delle parole provocatorie c’era l’arrosto di un chiaro e articolato messaggio politico. In sintesi: i giudici hanno dovuto interrompere a metà la cura contro la corruzione iniziata con Tangentopoli; i giudici furono (e sono) “fermati” e costretti alla “genuflessione” da una politica, da Berlusconi a Renzi, che vuole impedir loro di portare a termine la “cura”; Raffaele Cantone, il presidente dell’Autorità anti corruzione, ha messo acqua nel suo vino; in Italia ci sono troppo poche carceri e troppi avvocati, e troppi appelli contro le sentenze di condanna.
Soffermarsi nel dettaglio su ciascuna di queste e altre analoghe dichiarazioni di Davigo è fuorviante. Queste dichiarazioni, ovviamente e certo deliberatamente unilaterali, esagerate, retoriche com’è inevitabile che sia un “manifesto” politico, in realtà si risolvono in un discorso unitario che naturalmente nessuno (nemmeno Antonio Di Pietro, ai suoi bei tempi) fa né faceva esplicitamente, ma che è un discorso sul quale non sarebbe inutile soffermarsi. In sostanza il presidente (e non è un dettaglio) dell’Associazione nazionale magistrati dichiara che le toghe intendono arrogarsi il diritto-dovere di “risanare” la nazione visto che nessun altro vuole o può farlo, e conseguentemente negano al sistema politico la legittimità a decidere, sovranamente, le scelte di politica giudiziaria, che poi è politica tout-court dal momento che lo strumento legislativo investe qualsiasi piega della vita dei cittadini. In altri termini, nelle parole di Davigo vi è una radicale contestazione del principio della separazione dei poteri che resta il principio informatore numero uno dei sistemi democratici moderni.
Si dirà che la separazione dei poteri in Italia è sempre stata piuttosto temperata, per esempio – ma non solo – dalla configurazione partitica dell’organo di autogoverno della magistratura. Si dirà soprattutto, e non senza ragione, che la politica ha distrutto la propria legittimità con le proprie mani, “delegando” in difficili passaggi storici la gestione dei conflitti collettivi alla magistratura, istituzionalmente chiamata, viceversa, a dirimere conflitti individuali (basta pensare alle relazioni industriali in Italia a partire dagli anni Settanta del secolo scorso). Peraltro, a modestissimo avviso di chi scrive, questa latitanza della politica davanti alle sfide che le sono proprie è una responsabilità ben più grave di quella della cleptocrazia.
Il dilemma che si nasconde dietro l’ormai cronico conflitto tra magistratura e sistema politico è, insomma, qualcosa di molto più serio, è la decisione su quale sia il potere di ultima istanza in ciò che resta della democrazia italiana: la sovranità popolare, espressa nella regola della maggioranza, o la sovranità dei “migliori” espressa nelle graduatorie dei concorsi per l’accesso alla magistratura e nella assegnazione degli incarichi giudiziari da parte del Csm?
Davanti a questo dilemma, l’establishment politico e mediatico finge di non capire e, del resto, è lo stesso Davigo a lasciare aperta questa via di fuga con un uso accorto della retorica che rifugge da qualsiasi analisi motivata di quanto afferma, preferendo la tecnica dell’apologo (la storiella del gerarca fascista e della guerra alle mosche) o della pennellata suggestiva (una volta i politici erano ipocriti perché si vergognavano, ora neanche più quello) o comunque del processo sommario. Ci si può tuttavia legittimamente chiedere: 1. per chi crede ancora nella sovranità popolare e nei meccanismi che la rappresentano, la scelta di imboccare la via di fuga lasciata aperta è lungimirante? 2. chi crede ancora nella democrazia rappresentativa, tra le componenti del firmamento politico italiano?