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Dimissioni volontarie: errare è umano, perseverare è diabolico

“​Dimissioni telematiche: rapidesemplici e sicure“, assicura il ministero del Lavoro in una recente campagna informativa.

Dallo scorso 12 marzo è infatti in vigore l’art. 26 del d.lgs. n. 151 del 2015, in base al quale le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro (fatte salve alcune eccezioni) debbono essere effettuate, a pena di inefficacia, con modalità telematiche. Il lavoratore non può cioè dimettersi oralmente, né inviando una raccomandata o risolvere il rapporto sottoscrivendo un accordo col datore di lavoro.

L’obiettivo è quello, in astratto condivisibile, di contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco (anche se nessuno si è mai preoccupato di indagare sulla reale diffusione del fenomeno e, conseguentemente, sull’opportunità di aggiungere un non irrilevante costo di transazione per le imprese).

Chi ha avuto la disavventura di doversi cimentare con il nuovo meccanismo introdotto dal Jobs Act si è però accorto che, a dispetto degli spot del Governo, le criticità sono molte.

La procedura, infatti, è tutt’altro che semplice ed immediata. Il lavoratore deve prima di tutto registrarsi sul portale www.cliclavoro.gov.it, effettuare il login (una volta ottenute le credenziali) e accedere all’apposita sezione dedicata alle dimissioni. A questo punto è richiesta una seconda registrazione, per la quale è necessario essere muniti del codice fiscale e del PIN rilasciato dall’INPS. Per ottenere tale codice il lavoratore ha due possibilità: recarsi presso una sede territoriale INPS oppure richiederlo on line. In entrambi i casi occorrerà del tempo. Il PIN rilasciato on line infatti è inizialmente composto da sedici cifre: i primi otto numeri vengono inviati via email, posta elettronica certificata o sms, gli altri sono recapitati in seguito all’indirizzo di residenza, tramite posta ordinaria. Il che significa che dimissioni contestuali sono impossibili e il preavviso potrà iniziare a decorrere solo dopo alcuni giorni.

Una volta in possesso del PIN completo il lavoratore deve quindi accedere all’apposita sezione del portale ministeriale e compilare la modulistica inserendo le informazioni richieste, modulistica che sarà poi inviata al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente.

Le criticità del meccanismo predisposto dal legislatore sono facilmente intuibili. Provo a sintetizzarne alcune.

La procedura richiede: il possesso di un computer con collegamento internet; una certa dimestichezza nell’utilizzo degli strumenti informatici; un’attività piuttosto complessa e dunque un adeguato livello di istruzione e una buona conoscenza della lingua italiana; tempo e una buone dose di pazienza.

È pertanto evidente che molti lavoratori si troveranno in seria difficoltà e potrebbero essere indotti a lasciar perdere.

L’alternativa, a onor del vero, c’è: il lavoratore può infatti recarsi presso un patronato, un’organizzazione sindacale, un ente bilaterale, una commissione di certificazione. Si tratta peraltro di un’alternativa che richiede tempo (occorre prendere appuntamento e in particolari periodi la disponibilità può essere scarsa) e che non è gratuita. Il che, ancora una volta, potrà indurre l’interessato a lasciar perdere.

Nel qual caso, peraltro, i problemi maggiori sorgono in capo all’altro interessato, il datore di lavoro, che all’interno del meccanismo figura quale soggetto passivo. Laddove il lavoratore non completi la procedura telematica l’unica strada giuridicamente percorribile per il datore è infatti, attualmente, quella del licenziamento disciplinare, che peraltro comporta oneri (la procedura prevista dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori è complessa), rischi (di contenzioso) e costi (il tempo perso, le risorse umane impegnate, le raccomandate e soprattutto il contributo per la NASPI).

Non male, vien da dire, per un decreto ironicamente, intitolato “Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese”.

Ma ciò che più indispone è il fatto che un meccanismo analogo era già stato introdotto in passato e gli esiti erano stati fallimentari (qualcuno forse ricorderà la legge n. 188 del 2007, fortemente voluta dal Governo Prodi e dall’allora ministro Damiano e prontamente cancellata nel 2008 dal neo insediato Governo Berlusconi dopo un periodo di vigenza più virtuale che reale di poche settimane).

Dunque, le criticità erano ben note. Ben nota avrebbe dovuto essere in particolare l’assoluta incongruenza logica, ancor prima che giuridica, di un meccanismo che pone un obbligo di forma in capo all’autore di un atto (il lavoratore) e poi fa ricadere le conseguenze negative del mancato assolvimento di quell’obbligo sul destinatario dello stesso (il datore di lavoro). Errare è umano, ma perseverare è diabolico

Per di più, occorre considerare che di un intervento in materia non vi era alcun bisogno, dal momento che la legge Fornero (n. 92 del 2012) aveva introdotto un meccanismo per contrastare le dimissioni in bianco di indiscussa efficacia e che non aveva mostrato particolari problemi applicativi.

Speriamo, a questo punto, che il Governo ritorni sui suoi passi o almeno apporti quanto prima i correttivi necessari, semplificando la procedura e riconoscendo al datore di lavoro, come nella legge Fornero, la possibilità di invitare il lavoratore dimissionario ad effettuare la compilazione telematica prevedendo che, decorsi sette giorni, il rapporto si intende comunque risolto.


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