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Donald Trump, Matteo Salvini e Spinoza

donald trump matteo salvini

Spinoza diceva che non bisogna irridere, compiangere o disprezzare le azioni umane, ma solo comprenderle (“Humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari sed intelligere”). Con tutto il rispetto per il filosofo che forse più di ogni altro ha influito sulla mia formazione culturale, se penso al colloquio tra Donald Trump e Matteo Salvini in quel di Philadelphia questa volta proprio non ce la faccio soltanto a intelligere.

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Piercamillo Davigo, con l’appoggio caloroso dei pentastellati, ha proposto di introdurre nella nostra legislazione la figura dell’agente provocatore, ossia del poliziotto che sotto copertura va a offrire tangenti ai politici. A me pare, appunto, soprattutto una provocazione (con lo stesso criterio, si potrebbe pensare di offrire un’avvenente signorina a ogni marito per saggiarne la fedeltà coniugale). Tuttavia, accettiamola pure. Perché, allora, solo per i politici e non anche per i magistrati? Infatti, se -come sembra ritenere il presidente dell’Anm- essi sono i tutori dell’etica pubblica, non dovrebbero temere di sottopori a un test (che in realtà è più una trappola) di moralità.

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Secondo gli ultimi dati resi noti dal ministero della Giustizia, dal 1992 lo Stato italiano ha versato più di 600 milioni di euro per risarcire le vittime (23.998) di ingiusta detenzione o di errori giudiziai. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata varata la prima volta nel 1988 e modificata solo nel febbraio di quest’anno. I dati ufficiali dicono che dal 1988 al 2014 i magistrati riconosciuti civilmente responsabili dei loro sbagli con sentenza definitiva sono stati solo quattro. Secondo l’Associazione nazionale vittime errori giudiziari, ogni anno vengono riconosciute dai tribunali 2.500 ingiuste detenzioni, ma solo un terzo vengono risarcite. Secondo Stefano Livadiotti, le toghe “hanno solo 2,1 probabilità su 100 di incappare in una sanzione” (“Magistrati. L’ultracasta”, Bompiani, 2011).

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“Nel mio paese ci si presenta a libere elezioni dicendo ‘io la penso all’opposto di Davigo’ e se i cittadini elettori, gli unici sovrani, la pensano come me e mi daranno i suffragi necessari, il primo atto che proporrò sarà la separazione delle carriere tra chi giudica e chi accusa; quindi riformerò il Csm in modo da scoraggiare la costituzione di correnti (rectius di partiti) di magistrati; modificherò la fictio dell’obbligatorietà dell’azione penale, principio in nome del quale il singolo magistrato decide quale reato perseguire e quale fascicolo può restare ad ammuffire nel cassetto; proporrò una riforma legislativa per cui la galera certa si ottenga all’esito di una condanna e non preventivamente per cercare prove in vista di un processo”: è il brano di una lettera di Giuseppe Benedetto pubblicata sul Foglio di oggi. Anche se non è mai citato, è chiaramente rivolta a Matteo Renzi. Si può condividerla o meno (io in larga misura la condivido), ma ha l’indubbio pregio di chiedere al premier più coraggio nell’affrontare il problema del giustizialismo trionfante. Quel coraggio che, a parte qualche lodevole discorso, è finora mancato nell’azione di governo .



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