Che succede davvero alla diga di Mosul? E’ davvero in pericolo? E quali sono i rischi geotecnici e pure geopolitici? A queste domande hanno cercato di rispondere diversi esperti durante l’Iraq Crisis Conference (qui l’articolo completo di Formiche.net), ospitata la scorsa settimana dal Centro studi americani in collaborazione con l’Ispi, e promossa dall’Organizzazione internazionale Pafi (Peace Ambassadors for Iraq).
Ecco i nomi degli esperti: Nadhir al-Ansari (in collegamento Skype), docente presso la facoltà di ingegneria del Politecnico di Lulea, David Dewane, docente presso la facoltà di architettura dell’Università cattolica di Washington, Lucio Ubertini, membro del Comitato Scientifico World Water Assessment Program dell’UNESCO, Raimondo Luciani, facoltà di ingegneria dell’Università di Cassino, ed Enrica Caporali, facoltà di ingegneria dell’Università di Firenze.
Nadhir al-Ansari, che la diga di Mosul la conosce bene soprattutto perché, nato e cresciuto in Iraq, alla costruzione della diga ha preso parte in prima persona, ha fornito un quadro completo su rischi e soluzioni. Messa in esercizio nel 1986, la diga di Mosul – edificata per produrre energia idroelettrica, controllare l’irrigazione e ridurre la portata delle inondazioni – è una diga di terra che fin dall’inizio ha presentato numerosi problemi geotecnici. Innanzitutto legati al “dove collocarla” – ha spiegato al-Ansari – ma soprattutto causati dalle infiltrazioni. Come ha precisato anche Raimondo Luciani nel suo intervento, la diga – la prima in Iraq e la quarta in tutto il Medio Oriente – sorge “su tratti rocciosi che presentano strati di gessi e calcari, soggetti a fenomeni di carsismo”. Senza contare che nelle zone circostanti ci sono anche le zone sismiche dei monti Zagros, ha aggiunto Luciani.
Al-Ansari ha elencato quello che oggi preoccupa gli esperti. Prime tra tutte, le infiltrazioni, agevolate dalla natura del terreno su cui la diga sorge, e che non a caso si sono verificate fin “dal primo riempimento dell’invaso”, ha commentato il professore. La questione, poi, si è ulteriormente aggravata con l’occupazione della diga da parte dello Stato Islamico, a partire dal 2014. Isis, infatti, ha impedito agli addetti ai lavori di proseguire con le iniezioni di cemento finalizzate a ridurre la portata delle cavità presenti nelle fondamenta che, anzi, durante il periodo dell’occupazione sono aumentate. Il secondo problema riguardante la diga, quindi, non è di natura esclusivamente ingegneristico o geologico, ma piuttosto geopolitico. C’è poi la chiusura, avvenuta nel 2013, di una delle due porte che la diga presenta. Infine, a preoccupare è anche lo scioglimento delle nevi del Nord del Paese che potrebbe influire sull’aumento della portata d’acqua che la diga raccoglie.
Alla luce dello stato attuale delle cose, nonostante l’ottimismo della maggior parte della classe dirigente irachena, al-Ansari è stato netto nell’affermare che “la diga cederà di certo”. Ora, il cedimento causerebbe un numero di vittime che oscilla tra mezzo milione e un milione e mezzo. In caso di crollo un’ondata d’acqua alta 24 metri sommergerebbe Mosul in circa quattro ore, per poi muoversi vero Tikrit, sommersa, invece, da un muro d’acqua di 15 metri. Dopo 38 ore l’inondazione raggiungerebbe anche Baghdad, toccando i due metri di altezza.
Essendo la situazione grave – stando al parere di al-Ansari – le soluzioni che questi propone sono, in primo luogo, proseguire con le infiltrazioni di cemento per rafforzarne le fondamenta, dal momento che il loro cedimento medio “oscilla tra i 5 e i 10 millimetri l’anno”. Poi, completare la diga di Badush, una diga di salvataggio, i cui lavori sono stati interrotti per problemi di natura finanziaria generati dalle sanzioni imposte all’Iraq dall’Onu in occasione della prima Guerra del Golfo. Smettere – e qui il Professore si riferiva alla classe politica irachena – di strumentalizzare, per scopi politici, la questione che, invece, costituisce un problema serio e reale. Infine, elaborare un piano di emergenza, nel caso in cui l’evacuazione diventi necessaria.
Sull’assenza di un piano di emergenza si sono espressi anche gli altri relatori del panel. David Dewane, che ha ipotizzato l’evacuazione della città di Mosul, sulla base di quanto appreso dall’esperienza maturata in occasione dell’uragano Katrina abbattutosi su New Orleans nel 2005, ha sottolineato quanto sia grave che il governo centrale di Baghdad non abbia messo in cantiere alcun piano di evacuazione. Secondo Dewane questo, non solo porterebbe a una catastrofe nella città di Mosul, ma anche nella capitale che, raggiunta dall’inondazione con alcune ore di differenza, andrebbe incontro a una situazione ancora peggiore. Il panico generale che si diffonderebbe, infatti, aggraverebbe ulteriormente lo stato delle cose.
Anche Lucio Bertini ed Enrica Caporali hanno concordato sull’impellente necessità di elaborare un piano di emergenza e di promuoverne la corretta informazione presso la popolazione locale. A redigere il piano, poi, precisa Bertini, non dovrebbero essere solo gli esperti degli Stati stranieri presenti in Iraq, ma soprattutto quelli locali, perché caratterizzati da una migliore conoscenza del territorio. Da qui, ha proseguito Bertini, la necessità che il monitoraggio della diga sia effettuato non solo mediante satelliti, ma anche tramite la presenza di un presidio costante, anch’esso autoctono, all’interno della zona interessata.
(Foto di Eleonora Giuliani Ames)