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Federica Guidi, Tempa Rossa e la telefonata galeotta

Ancora una telefonata galeotta. E’ quella di più di un anno fa che, maledettamente o fortunatamente intercettata, secondo i gusti, è appena costata la carriera di governo a Federica Guidi. Che si è prontamente e “opportunamente” dimessa, come ha detto da Boston il grato presidente del Consiglio Matteo Renzi, da ministra dello sviluppo economico per avere telefonato, appunto, al convivente Gianluca Gemelli informandolo dell’impegno profuso perché nella legge di stabilità del 2015, in quel momento all’esame del Parlamento, si recuperasse una norma favorevole agli interessi industriali del compagno, e dei suoi amici o soci in affari di petrolio e derivati.

Quegli interessi potevano magari coincidere con quelli dello sviluppo economico del Paese, cui era preposta la ministra, ma vallo spiegare adesso ai magistrati di Potenza che indagano da tempo su una complessa vicenda di traffici di rifiuti, facendo rischiare l’arresto al compagno della Guidi, accusato, fra l’altro, di “traffico d’influenze illecite”. Ma vallo a spiegare soprattutto alle opposizioni, fiondate sulle cronache giudiziarie per ottenere la testa della ministra, e per reclamare pure quella di Maria Elena Boschi. Sì, proprio lei, la ministra già scampata alla sfiducia parlamentare per il coinvolgimento della famiglia nella bancarotta della Banca Etruria, ed entrata anche nella vicenda Guidi per avere contribuito come ministra per i rapporti con le Camere al recupero della norma tanto attesa dal compagno e amici della sua collega di governo.

Tanto avvenente quanto sfortunata si sta purtroppo rivelando la giovane ministra aretina delle riforme, oltre che dei rapporti col Parlamento, scelta per questo lavoro di governo direttamente e fiduciariamente dal presidente del Consiglio, alla stregua della Guidi. Che in una intervista a Sette, il supplemento del Corriere della Sera, raccontò a Vittorio Zincone nel mese di giugno del 2014 di avere ricevuto l’offerta del Ministero dello sviluppo economico personalmente, e naturalmente per telefono, da Renzi mentre stava cambiando il pannolino al figlioletto.

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Federica Guidi, rampolla di una famiglia impegnata anche nel settore energetico, si era guadagnata la stima e l’amicizia di Renzi proprio come imprenditrice, e presidente dei giovani industriali: giovani come il presidente del Consiglio e segretario del Pd.

Dovevano essere appartenute quindi alle solite leggende di palazzo le voci che avevano attribuito la scelta di Renzi ai buoni uffici, o addirittura a una richiesta di Silvio Berlusconi, quasi come pegno del famoso Patto del Nazareno che i due avevano appena stretto per le riforme costituzionale ed elettorale tracciando un percorso che poteva e doveva aiutare un governo al quale, per il resto, l’ex Cavaliere aveva preferito però negare la fiducia, rimanendo all’opposizione.

Berlusconi, per il cui partito e schieramento la famiglia Guidi non aveva nascosto condivisione e simpatia prima di incrociare Renzi sulla strada, è stato fra i primi, e pochi, a solidarizzare con la ministra dimissionaria, non appena sono scoppiate le polemiche sulla telefonata intercettata con il suo compagno. Intercettata e diffusa in tempi e modalità che hanno, a dir poco, insospettito l’ex presidente del Consiglio, scottato già di suo da telefoni e telefonini galeotti, incorsi nella curiosità giudiziaria e mediatica.

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Il più clamoroso infortunio telefonico di Berlusconi si può sicuramente considerare quello della notte fra il 27 e il 28 maggio del 2010. Quando l’allora capo del governo, in trasferta a Parigi, fece chiamare dal suo caposcorta la Questura di Milano, parlando poi personalmente con un alto funzionario, per togliere dai guai una ragazza marocchina minorenne, la famosa Ruby, da lui scambiata per una nipote dell’allora presidente egiziano Mubarak. Che era trattenuta dalla polizia italiana per una denuncia di furto di 3000 euro e uscì affidata, su segnalazione dello stesso Berlusconi, all’allora consigliera regionale lombarda del partito berlusconiano e amica Nicole Minetti.

Scoppiò un putiferio giudiziario e politico. Che costò tre anni dopo all’ormai ex presidente del Consiglio una severa condanna di primo grado per prostituzione minorile e concussione, destinata però ad essere smentita in appello e in Cassazione, senza tuttavia risparmiargli un altro procedimento, in corso, per presunta corruzione di testimoni. E, beffardamente, senza risparmiare a giornali e giornalisti critici del primo verdetto di condanna processi e soldi, con tanto di sentenze, per azioni promosse da due delle tre giudici di primo grado, sentitesi diffamate dalle reazioni al loro pronunciamento, per quanto rovesciato –ripeto – nei gradi superiori.

Non solo i telefoni, e telefonini, ma anche le penne riescono quindi a diventare galeotte in questo singolare paese che si chiama Italia.

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