Il feretro di Gianroberto Casaleggio è stato salutato dai grillini al grido di “Onestà, Onestà!”. Si è certamente trattato di un omaggio al fondatore del movimento, che di quella parola d’ordine aveva fatto un mantra. Ma l’episodio segnala anche che i pentastellati sanno fiutare l’aria che tira nel nostro Paese. Con la crisi dei partiti, la sequenza di nuovi scandali e la gogna mediatica che cerca di trasformare anche la principale forza di maggioranza in una cricca di malfattori, la linea di confine tra giustizialismo e garantismo si assottiglia e riemerge prepotentemente lo spettro del “popolo giustiziere”. È il clima ideale per un rientro surrettizio della magistratura in politica e per mettere sotto scacco Matteo Renzi, facendone l’obiettivo di ogni pubblico vituperio.
Ma per quali ragioni in forma prima silenziosa, poi via via più rumorosa e eclatante, la sfiducia nei partiti è esplosa così clamorosamente? La risposta che forse ha ricevuto più credito è anche la più semplice: la “casta” è diventata insopportabile perché i leader sono peggiorati. Come si suol dire, “non ci sono più i capi di una volta”. Le élite non sono più, come scriveva Vilfredo Pareto, classi elette composte da coloro che eccellono nei vari campi, compreso quello dell’arte di governare. Nell’analisi di Roberto Michels era scontato che i capi fossero migliori della massa. Soprattutto “nei partiti del proletariato – scriveva nel 1911 – in fatto di cultura, i duci sono di gran lunga superiori all’esercito”. Come si legge nella “Sociologia del partito politico” (il Mulino, 1966), “la gratitudine delle masse verso personalità che in nome loro parlano e scrivono, che si sono create la fama di difensori e consiglieri del popolo, […] è naturale e spesso trascende in vera e propria tendenza delle masse alla venerazione dei capi”.
Nulla di tutto ciò sembra oggi possibile. Come ha scritto Marco Revelli (“Finale di partito”, Einaudi, 2013), le leadership attuali sono ampiamente screditate, tanto che l’unica rivendicazione unanime che si leva “dal basso” ogni qualvolta si parla di riforma elettorale, è quella di sottrarre alle segreterie di partito il potere di decidere le candidature. La folla di funzionari e di quadri intermedi che occupa gli apparati, così come la moltitudine dei parlamentari, sono spesso considerate come esempio di impreparazione, di cattiva conoscenza dei problemi, di inefficienza e parassitismo. Sono inoltre bollate come venali e affaristiche, marcate dal vizio del privilegio e da uno spirito corporativo, oltre che da un diffuso servilismo. “Non c’è persona più fedele del buono a nulla, perché non ha alternative”, ha detto in una lezione alla Leopolda fiorentina l’economista Luigi Zingales parlando della “peggiocrazia” dilagante nei partiti italiani. E Maurizio Viroli, in un fortunato volumetto dal titolo esemplare (“La libertà dei servi”, 2010), ha parlato di “sistema di corte” a proposito di Silvio Berlusconi, e di “dipendenza o sudditanza morale” a proposito del Pd.
In un quadro istituzionale tendenzialmente delegittimato, in cui si sgretolano le basi materiali della coesione sociale, non sorprende quindi che Italia sia riemersa una “tentazione populista” anche nelle forme inedite della democrazia digitale. Al di fuori delle retoriche pantecnologiche, è infatti evidente – sostiene sempre Revelli – che le procedure della decisione telematica tendono a cancellare la fase necessariamente problematica e riflessiva della discussione e dell’analisi dei problemi, per promuovere invece i fattori emotivi, le sensazioni immediate, le pulsioni istintive. E anche questo è un paradosso del nostro tempo: che a una sicuramente più vasta acculturazione e conoscenza corrisponda una contrazione del momento dell’esame e della deliberazione argomentata, compresso fino alla dimensione puntiforme del fatidico clic.