Ormai è chiaro: se sulla stampa americana si legge Egitto e caso Regeni, bisogna (anche) leggere Libia e Medio Oriente. In una parola: è geopolitica. L’insistente e inconsueta attenzione del governo e dei media americani a sostegno dell’Italia sta dando alla tragica morte di Giulio Regeni un’eco che in altre situazioni l’Italia avrebbe gradito ma che non ha ricevuto. Basti pensare al caso dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone: purtroppo l’India è un interlocutore troppo importante perché l’amministrazione Usa potesse (o possa) schierarsi come sta facendo sul caso Regeni.
Venerdì 14 aprile ancora una volta è intervenuto il New York Times: «L’indagine bloccata sul sequestro e sull’omicidio dello studente italiano ha costretto almeno un Paese, l’Italia, a rivalutare il suo legame» con l’Egitto, ha scritto il quotidiano in un editoriale, ma «è tempo che altre democrazie occidentali riconsiderino il proprio». «L’Italia ha chiesto ad altri governi europei di mettere pressione sull’Egitto» e Londra ha «infine invocato una “indagine piena e trasparente” sull’assassinio» di Giulio Regeni, mentre «c’è un silenzio vergognoso dalla Francia, il cui presidente François Hollande lunedì sarà al Cairo per firmare un accordo sulle armi del valore di 1,1 miliardi di dollari». Certamente ci sono calcoli legati al ruolo che la Francia potrebbe assumere in quell’area, ma la critica a Hollande arriva dopo molti altri segnali.
Già l’8 febbraio Barack Obama, incontrando alla Casa Bianca il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva confermato che gli Usa collaboreranno «per la ricerca della verità». Quello su Regeni, aveva scritto nell’occasione il New York Times, è «un altro segnale allarmante di abusi da parte della forze di sicurezza in un Paese dove detenzioni arbitrarie e torture stanno diventando sempre più comuni». La posizione americana era chiara e probabilmente il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi si stava già preoccupando: quel giorno il Dipartimento di Stato non aveva voluto confermare l’apertura di questo fronte diplomatico, ma aveva significativamente avvertito che gli Usa «osservano» le indagini in corso «con la partecipazione degli investigatori italiani».
Insomma, il caso Regeni è diventato un caso internazionale: per l’Italia è una tragedia umana e una questione di dignità, con il governo Renzi che continua a pretendere una collaborazione purtroppo negata agli investigatori del Ros dei carabinieri e dello Sco della polizia, oltre che alla procura di Roma; per gli Stati Uniti un’opportunità per costringere Al Sisi a scegliere: collabora oppure le conseguenze saranno pesantissime. Il presidente egiziano era nel mirino americano già nell’estate scorsa. In occasione della visita di Mattarella, l’Ansa aveva ricordato che in agosto al Cairo funzionari americani avevano criticato la situazione dei diritti umani in Egitto. L’amministrazione Obama aveva prima congelato, e poi concesso, 1,3 miliardi di dollari in aiuti militari per rafforzare un regime che resta un alleato fondamentale nella lotta all’Isis. Non c’erano investimenti francesi all’orizzonte in quel momento mentre la situazione nel Mediterraneo era già esplosiva.
L’attacco dei più importanti giornali è continuo: il 18 marzo un appello alla Casa Bianca perché non firmi «un assegno in bianco» al Cairo dopo la morte di Regeni venne rivolto dal Washington Post in un durissimo editoriale che fece del caso dell’uccisione dello studente italiano l’ultimo esempio di una serie di violazioni dei diritti umani da parte delle autorità egiziane. «Non ricompensate l’Egitto per la tortura di innocenti». Il giorno successivo il New York Times aggiunse che «i media egiziani, i politici e i responsabili del Cairo puntano su varie piste nel caso della morte di Giulio Regeni, tranne quella che Washington, Roma e altre capitali europee ritengono la più probabile: che il ricercatore sia stato rapito, torturato e ucciso da elementi delle forze di sicurezza egiziane». E ancora il 28 marzo lo stesso Nyt scrisse che l’escalation della repressione in Egitto, con le detenzioni arbitrarie, l’uso della tortura e di omicidi, tra cui l’assassinio di Regeni, erano stati denunciati in una lettera inviata da alti esperti americani sul Medio Oriente al presidente Usa Barack Obama: il giornale tornava a chiedere all’amministrazione Obama di rivedere i rapporti con l’Egitto.
E la Libia? E’ noto che il generale Khalifa Haftar, uomo di al Sisi, guida le truppe fedeli a quel parlamento di Tobruk che non sembra accettare di buon grado l’insediamento del presidente Fayez al Serraj, riconosciuto dall’Onu. Ridurre a più miti consigli al Sisi per contribuire davvero a stabilizzare la Libia potrebbe essere un obiettivo non secondario. Così come sono una curiosa coincidenza le migliaia di egiziani scese in piazza venerdì in tutto l’Egitto, scandendo gli slogan della rivolta del 2011 e invocando la caduta del governo dopo la decisione del presidente al-Sisi di cedere due isole del mar Rosso all’Arabia Saudita. Gente spinta a protestare dagli oppositori del regime, a cominciare dai Fratelli Musulmani.
In un messaggio al Meeting nazionale delle scuole per la pace, la fraternità e il dialogo in corso di Assisi, sabato 15 aprile Mattarella ha espresso «apprezzamento particolare» per la scelta di dedicare l’edizione di quest’anno al giovane ricercatore friulano: «Non vogliamo e non possiamo dimenticare la sua passione e la sua vita orribilmente spezzata». L’ennesimo segnale che l’Italia non molla. Il 13 aprile al Sisi disse che i servizi segreti egiziani non sono i responsabili della morte di Regeni che però, ammise, rappresenta «un problema». Quello che al Sisi non immaginava è che quell’omicidio gli avrebbe causato una valanga di «problemi».