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Il garantismo di Matteo Renzi è davvero genuino?

Matteo Renzi

Questa storia dell’anagrafe politica di Matteo Renzi dopo il suo forte discorso garantista al Senato comincia ad essere, a suo modo, divertente.

L’accostamento del presidente del Consiglio al compianto Bettino Craxi, che starà osservando sornione e compiaciuto, da lassù, quanto i fatti gli stiano dando ragione sul terreno di uno scontro mai cessato fra la politica e la giustizia, sta andando ben oltre i nostri graffi quotidiani.

Ha graffiato, diciamo così, anche un ostinato anticraxiano qual è stato ed è Antonio Padellaro, già direttore dell’Unità e fondatore del Fatto Quotidiano ora condotto da Marco Travaglio, un altro specialista dell’anticraxismo militante. Che non ha deposto le armi neppure davanti alla tomba del leader socialista protagonista di una lunga stagione della politica italiana: forse l’ultima veramente e totalmente politica, prima che le ruspe giudiziarie abbattessero negli anni di Mani pulite i partiti di governo della cosiddetta prima Repubblica, ammaccassero quelli dell’opposizione, ne facessero spuntare di nuovi, o truccassero i vecchi con altri abiti, e avviassero “una transizione incompiuta”. Che è il sottotitolo ammonitore di un vecchio libro –“Dove va la Repubblica”- scritto da Giorgio Napolitano e pubblicato da Rizzoli nel 1994, dopo i due anni da lui trascorsi alla presidenza della Camera più tormentata della storia repubblicana.

Purtroppo il buon Napolitano non ha potuto portare a termine la transizione neppure nei nove anni faticosamente trascorsi al Quirinale dal 2006 al 2015, consumando un intero mandato presidenziale e cominciandone un altro, senza precedenti sul colle più alto di Roma. Un altro, interrotto solo da una dignitosa resa alle ragioni dell’età e della stanchezza fisica, pur sapendo che gran parte degli italiani, a dispetto della rappresentazione comicamente autoritaria e satrapesca fattane dai suoi critici ed avversari, vecchi e nuovi, avrebbero preferito vedere “Re Giorgio” ancora al vertice dello Stato. E non a torto, visto che la politica continua ad avere bisogno, ogni tanto, dei suoi interventi e moniti da presidente ormai emerito della Repubblica, anche sul terreno del garantismo. Come si è appena visto, proprio dopo il discorso di Renzi al Senato, con la rievocazione fatta da Napolitano delle drammatiche circostanze e polemiche in cui gli toccò perdere al Quirinale il suo consigliere giuridico, il magistrato Loris D’Ambrosio, morto di crepacuore per essere finito nel tritacarne mediatico delle intercettazioni giudiziarie disposte dalla Procura di Palermo nelle indagini sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione stragista del 1992-93. Che, con inquietante coincidenza, furono anche gli anni della demolizione giudiziaria dei vecchi partiti ed equilibri politici.

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Fra il garantismo di Matteo Renzi e quello di Bettino Craxi l’insospettabile e onesto Padellaro, in una intervista al nuovo giornale diretto da Piero Sansonetti, Il Dubbio, ha preferito il secondo attribuendo al primo l’”opportunismo” mancato all’altro. Che in effetti non attese i suoi problemi giudiziari, esplosi con Mani pulite nel 1992, per scontrarsi con la corporazione delle toghe.

Già nel 1981, come ha ricordato Stefano Rodotà al Fatto Quotidiano, Craxi si levò nell’aula di Montecitorio per contestare l’arresto di Roberto Calvi per la vicenda del Banco Ambrosiano, da cui derivarono poi anche il crak del Corriere della Sera e il lungo arresto di Angelo Rizzoli dimenticati da Rodotà. Per non parlare del sostegno di Craxi, anch’esso ignorato o dimenticato da Rodotà, ma pure da Padellaro, al referendum del 1987 promosso dai radicali per la responsabilità civile dei magistrati, sull’onda della grande ingiustizia subita da Enzo Tortora.

Il sostegno a quel referendum costò al leader socialista la guida del governo, con una crisi provocata dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita con il pretesto di una “staffetta” promessa e mancata a Palazzo Chigi, ma in realtà con l’obbiettivo di provocare le elezioni anticipate. E con le elezioni anticipate il rinvio della prova referendaria, che poi, grazie all’ostinazione dell’ormai ex presidente del Consiglio ma sempre influente segretario del Psi, decisivo per la formazione dei governi, slittò solo di pochi mesi. E fu stravinta dai promotori, anche se poi contraddetta da una legge che continuò a proteggere come in una fortezza i magistrati, sino a quando non ha cercato di scalfirla proprio Renzi fra le solite, scontate proteste e catastrofiche previsioni delle toghe. Proteste appena riproposte sul Corriere della Sera dal nuovo presidente dell’associazione dei magistrati, Piercamillo Davigo, definendo “ridicole” le nuove norme.

Purtroppo quel referendum del 1987 non costò a Craxi solo la guida del governo. I suoi rapporti con la magistratura, e i partiti o correnti con essa schierate sistematicamente, imboccarono una deriva, diciamo così, conclusasi solo col suo ritiro all’estero, inseguito da una giustizia esercitata contro di lui, quando scoppiò il bubbone del finanziamento generalmente illegale della politica, con una “durezza senza eguali”. Lo riconobbe onestamente, fra le proteste e i mugugni dei soliti giustizialisti, l’allora presidente della Repubblica Napolitano in una nobile e lunga lettera ad Anna Craxi in occasione del decimo anniversario della morte del marito.

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L’”opportunismo” contestato da Antonio Padellaro al garantismo di Renzi deriva, secondo il fondatore del Fatto Quotidiano, dalle posizioni di tutt’altro tipo assunte dall’attuale presidente del Consiglio in precedenti occasioni, chiedendo per esempio all’epoca del governo di Enrico Letta le dimissioni della ministra della Giustizia Anna Maria Cancellieri, neppure indagata, per una telefonata d’interessamento durante la detenzione dell’amica di famiglia Giulia Ligresti, molto ammalata.

A svegliare il Renzi garantista, diciamo così, sarebbe stata, secondo Padellaro, l’attenzione riservata dalla Procura della Repubblica di Potenza agli atti del suo governo, e alle conseguenti decisioni del Parlamento, per sbloccare l’affare noto come Tempa Rossa. Ma anche un lungo elenco, pubblicato non a caso dal Fatto Quotidiano, di 124 amministratori locali del Pd fra indagati e imputati, “dal Piemonte alla Sicilia”.


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