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Matteo Renzi, i giudici e la canea mediatica

Matteo Renzi

Renzi sfida (o accusa) i giudici: è più o meno questo il titolo che campeggia nelle prime pagine dei quotidiani nazionali di oggi. Si sta aprendo un nuovo capitolo dell’eterno conflitto tra due dei tre poteri canonici di Montesquieu? Non ne sono sicuro. Non possono esserci dubbi, al contrario, sul fatto che tale conflitto spesso viene amplificato dal quarto pilastro delle democrazie contemporanee: il sistema dell’informazione. Ora, noi sappiamo tutto su come funziona il Parlamento e il suo rapporto con l’esecutivo. Sappiamo molto meno, invece, su come opera concretamente la magistratura. Certo, ci lamentiamo delle lungaggini e delle inefficienze che caratterizzano l’iter giudiziario, e quindi dei suoi costi sociali, economici e umani. Ma, mentre i pregi e i difetti di Parlamento e governo vengono utilizzati per invocare riforme radicali, la magistratura resta intoccabile. Pena il rischio che venga messo in discussione il tabù della sua autonomia. Analoghe considerazioni si potrebbero fare per il quarto potere, i media.

Come ha acutamente osservato Mauro Calise, la vera cesura segnata dall’avvento della Seconda Repubblica riguarda proprio il riequilibrio dei poteri tra media e magistratura da una parte, e governo e Parlamento dall’altra (“La democrazia del leader”, Laterza). Complice (a sua insaputa) l’irruzione sulla scena politica di Silvio Berlusconi. Nel senso che la “santa alleanza” tra media e magistratura viene vista dalla sinistra superstite come l’unica diga residua allo strapotere del Cavaliere. “Scambiando un mutamento sistemico per uno spartiacque morale” (Calise).

La situazione non migliora con la crisi del berlusconismo. In fondo, cosa ha detto Renzi alla Direzione del Pd? Al di là della specifica vicenda del petrolio lucano, ha sostenuto che il combinato disposto dell’intervento dei pm e dell’alta visibilità offerta dalla stampa ai comportamenti incriminati ha sortito, nella maggioranza dei casi, scarsi risultati sul piano delle sentenze passate in giudicato ma un consistente quanto generico aumento del discredito nei confronti dell’intera classe politica. A mio avviso, su questo punto il premier ha ragioni da vendere. Né può essere sottovalutato il consenso crescente che ne deriva per le forze che hanno investito fino all’ultimo centesimo del proprio patrimonio demagogico in un rialzo del listino del malaffare. Sia chiaro, non sto affermando che la magistratura ha scelto consapevolmente di portare acqua al mulino di Grillo e Salvini. Una delle caratteristiche principali della sua azione, infatti, è l’impoliticità e la trasversalità. Un trattamento non molto di riguardo è stato riservato anche a politici di spicco della sinistra – Romano Prodi, Antonio Bassolino, Vincenzo De Luca, Filippo Penati, solo per fare qualche nome – da magistrati non necessariamente di destra. Anzi, in alcuni casi assurti a responsabilità di governo nel campo del centrosinistra (e con il sostegno di organi di stampa dell’area progressista).

L’unica “motivazione comune a stampa e magistratura è la visibilità del bersaglio” (Calise). In un contesto in cui il principio fondativo dell’autonomia e dell’indipendenza può sconfinare nell’irresponsabilità (ancorché temperata da meccanismi interni di regolamentazione) nei confronti dei circuiti della legittimazione popolare, il leader – sindaco, governatore, ministro, presidente del Consiglio – diventa il primo oggetto (o soggetto) della loro attenzione. Più è rilevante il suo ruolo, più forte è la tentazione di metterlo sotto tiro e sotto torchio. Una cosa che negli Stati Uniti, culla della democrazia del leader, conoscono da molto tempo. Adesso cominciamo a conoscerla anche noi. Non c’è da rallegrarsene.


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