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Vi racconto come ho lavorato sui Panama Papers

Tutto è cominciato un anno fa, in una stanza della sede del quotidiano Süddeutsche Zeitung in via Hultschiner a Monaco, in Germania. Ai giornalisti di inchiesta Bastian Obermayer e Frederik Obermaier è arrivata una soffiata con milioni di documenti confidenziali di Mossack Fonseca, uno studio legale poco conosciuto ma molto potente, fondato a Panama negli anni ’70 e con sede in 35 Paesi (qui l’articolo di Formiche.net su chi sono e cosa fanno i fondatori di Mossack Fonseca).

L’ARRIVO DEI FILE

I documenti erano stati inviati da una fonte interna allo studio, presumibilmente infastidito dal fatto che tra i clienti non si facevano più differenze tra corrotti, criminali e capi del narcotraffico. Si aiutava indiscriminatamente ad aprire nuove società offshore e, in molti casi, a evadere le tasse nei Paesi di origine. La fonte inviò al Süddeutsche Zeitung 11,5 milioni di file risalenti a operazioni dal 1977 al 2015 (successivamente aggiornati tre volte, l’ultimo aggiornamento risale a marzo). “I due giornalisti hanno capito immediatamente che, per le dimensioni del materiale, non sarebbero stati in grado di verificare tutto da soli. Si sono rivolti all’International Consortium of Investigative Journalist (Icij), che poi ha contatto una serie di giornalisti di inchiesta per Paese”, racconta a Formiche.net Lisseth Boon, venezuelana, giornalista di inchiesta di RunRun.es e di Panama Papers.

LE PIATTAFORME E IL TRAINING

Dopo la firma dell’accordo di segretezza a Monaco, è cominciato il training per accedere alla piattaforma digitale dove sono stati scaricati i Panama Papers. “Tutti abbiamo accesso alla totalità dei documenti, e l’idea è che si possa aprire in futuro alla collettività – ha spiegato Boon -. Ma per ora entrare è complicato. Ci vuole un codice su una piattaforma, che ti dà accesso ad un’altra piattaforma con un altro codice, e così fino ad arrivare al nominativo che cerchi. Non possiamo però restare con i nomi. Bisogna capire chi e come si è compiuto il reato o l’irregolarità, e perché questo potrebbe avere una rilevanza sociale. È un lavoro giornalistico di inchiesta e verifica molto rigoroso, che richiede pazienza e responsabilità”.

LAVORO DI SQUADRA

Al Süddeutsche Zeitung non pensavano che i Panama Papers sarebbero rimasti un segreto durante questo anno: “Soltanto due settimane fa sono cominciate le voci, anche perché alcuni giornalisti hanno chiesto interviste alla Mossack Fonseca. Lo studio ha capito cosa stava succedendo e ha fatto partire una comunicazione avvertendo i clienti di un attacco hacker massivo. Ma per un anno nessuno ha parlato. È stato un lavoro emozionante, intenso, con molti scambi tra i colleghi, specialmente nei casi che coinvolgono più Paesi (per esempio c’è un caso tra il Venezuela e la Germania). Nulla di questo sarebbe stato possibile fuori dall’era digitale”, dice Boon.

RICOSTRUZIONE E VERIFICA

La differenza con la fuga di dati di Wikileaks, secondo Boon, risiede proprio in quel lavoro di interpretazione, verifica e contestualizzazione che solo un giornalista può fare: “Nel mio caso, per esempio, il mio personaggio era Victor Cruz Weffer, un generale molto legato al governo di Hugo Chávez alla fine degli anni ‘90. Non bastava dire che Weffer aveva conti nelle Isole Seychelles. Un ventenne di oggi in Venezuela non sa neanche chi è Weffer. Ho dovuto fare una ricostruzione e dimostrare che il generale non ha potuto giustificare l’aumento del suo patrimonio di più di un milione di dollari, proprio quando era accusato di corruzione per avere malversato i fondi di un progetto sociale chiamato Plan Bolívar 2000. Ho dovuto rintracciarlo per capire dov’è ora e cosa fa”.

TROVARE IL REATO

Per Boon è importante determinare l’irregolarità o l’illecito, soprattutto nel caso di funzionari pubblici: “Non necessariamente chi ha un conto in un paradiso fiscale o una società offshore è un delinquente o un corrotto. Il reato c’è quando si tratta di denaro proveniente da fondi pubblici o si fa per evadere le tasse. Noi abbiamo trovato 60 nominativi venezuelani, ci chiedono di dire chi sono, ma fino ad ora abbiamo verificato irregolarità in sette casi. Ci stiamo lavorando ancora. Senza la verifica resterebbe semplicemente un altro scandalo di fuga di dati”.

NON LIMITARSI AI PANAMA PAPERS

Sulle dichiarazioni di Wikileaks, che considerano il vero eroe dei Panama Papers l’hacker che ha trafugato e distribuito le informazioni, la giornalista sostiene che in parte è così, per l’audacia che questa fonte ha avuto e i rischi che sta correndo, “ma senza i giornalisti, anche loro coraggiosi, sarebbe stato un massiccio filtraggio di dati senza valore aggiunto”.

Lavorare con questi dati è anche un lavoro di grande responsabilità. Per Boon, non bisogna limitarsi ai Panama Papers: “Quando sono dentro il sistema, con tutto quel materiale a disposizione, è molto emozionante. Ma penso che il rischio è alto, rischiamo di esporre persone innocenti, che non hanno fatto nulla di male. Per quello abbiamo impiegato così tanto tempo. Non bisogna fermarsi con i Panama Papers, è necessario indagare, verificare, sistematizzare. In caso contrario, i Panama Papers sarebbero solo la pubblicazione di una lunghissima lista di pettegolezzi”.

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