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Peace-keeping, tutti i piani della Difesa

L’Italia da decenni è maestra nelle operazioni di peace-keeping e l’intensificarsi delle crisi internazionali da un lato rende ancora più necessari interventi di stabilizzazione (con mille variabili operative), dall’altro costringe questo strumento ad adattarsi a decisioni politiche mutevoli, che portano sempre di più verso «coalitions of the willings» senza l’avallo dell’Onu. Con un alto livello di relatori, il workshop su «L’evoluzione del peace-keeping. Il ruolo dell’Italia», conclusosi il 27 aprile al Centro alti studi per la Difesa, ha rappresentato un approfondimento utile sia per gli «studenti» che per una lettura del momento attuale. Non ci sono stati riferimenti diretti alla situazione libica e a un intervento italiano, sul quale peraltro i quotidiani continuano a indicare numeri che non hanno riscontri per il semplice motivo che non c’è nessuna concreta richiesta del governo di al Sarraj e dunque non si sa ancora che cosa l’Italia dovrebbe fare (e con quali altre nazioni), visto anche l’attivismo franco-egiziano a sostegno del generale Khalifa Haftar e degli interessi della Cirenaica.

«L’Italia – ha detto concludendo i lavori il ministro della Difesa, Roberta Pinotti – può diventare il centro europeo per la formazione al peace-keeping perché le nostre capacità sono riconosciute a livello internazionale». Si discute da anni se sia sempre giusto chiamarle «missioni di pace» come se questo dovesse eliminare in radice la possibilità di usare le armi. «Usciamo dall’ambiguità – ha detto il ministro – perché una missione è sempre finalizzata alla pace e alla stabilizzazione, ma se si mandano i militari significa che può esserci la possibilità dell’uso della forza per raggiungere gli stessi obiettivi». Non è mancato un riferimento al Libro bianco, visto che alcuni provvedimenti relativi arriveranno presto in Parlamento: «E’ lì che Governo e Parlamento si confrontano e lì si vedrà quali saranno i punti di caduta», un concetto su cui Pinotti ha insistito (c’era anche il presidente della commissione Difesa della Camera, Francesco Saverio Garofani, Pd) lasciando il dubbio che potesse riferirsi all’attività di lobbying che emerge dall’inchiesta di Potenza riguardo all’ammiraglio Giuseppe De Giorgi e alla Marina militare. Poco prima, pur se solo con accenni alle auto blu, ai militari presenti aveva ricordato l’indispensabilità di essere «sobri e integerrimi» per poter chiedere con maggiore forza i soldi necessari.

Qualche volta, si sa, il peace-keeping diventa peace-enforcing. Il capo di Stato maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano, l’ha ricordato citando l’esperienza in Bosnia dove fu necessario imporre la pace, così come stanno aumentando le operazioni basate sulle «coalitions of the willings». Un esempio di peace-keeping senza Onu fu il Kosovo nel 1999: «Venne applicato il criterio di una nazione frammentata e dunque fu considerato legittimo l’intervento anche senza l’avallo delle Nazioni Unite» ha detto Graziano. Oggi, ha aggiunto il generale citando un principio-base del Libro bianco, «lo strumento militare dev’essere adattabile e integrato per operare in contesti multinazionali e interagenzie come supporto alla pace: deterrenza, difesa avanzata e proiezione, integrandosi con la popolazione». Esempi? «Prendiamo il Mali, se no…» ha detto Graziano forse temendo ondate di articoli se avesse citato la Libia. «Nel Mali opera l’Unione europea per l’addestramento, l’Onu, una coalizione di nazioni a guida francese per le operazioni di combattimento e l’Unione africana per altre azioni di sicurezza: quattro soggetti sotto bandiera Onu». Ma c’è anche la missione Eunavfor Med, guidata dall’ammiraglio Enrico Credendino, che risponde a Federica Mogherini, Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, e ai 28 Stati dell’Unione.

Dunque, assodato che l’Italia è una potenza del peace-keeping, sappiamo che il quasi certo intervento in Libia sarà molto peace-enforcing: a prescindere dal numero dei militari coinvolti, quando sarà presa la decisione finale il governo non dovrà nascondere all’opinione pubblica gli enormi rischi connessi.



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