Ciò che è rimasto del referendum contro le trivelle, giustamente naufragato nell’astensionismo, sono le foto enfatiche dei solerti big istituzionali e politici inutilmente accorsi alle urne e soprattutto il costo salato di 350 milioni di euro circa. Che non sarebbe stato eliminato, ma solo ridotto, e di poco, se la prova fosse stata abbinata, secondo le richieste dei promotori, alle elezioni amministrative del 5 giugno. Come se fra meno di due mesi si votasse in tutti i Comuni italiani, dove invece si sono dovuti allestire i seggi per la bizzarra iniziativa referendaria promossa, peraltro per la prima volta nella storia dei referendum abrogativi, da nove Regioni. Dalle cui amministrazioni, e relativi contribuenti, verrebbe ora la voglia di pretendere l’assunzione degli oneri della loro impresa.
Invece c’è il rischio che ai 350 milioni di euro già sprecati si debbano aggiungere i costi giudiziari dell’azione non meno bizzarramente reclamata dai soliti buontemponi del l’ambientalismo e dintorni contro i “pubblici ufficiali” Matteo Renzi e Giorgio Napolitano, permessisi di avere sostenuto l’astensionismo fregandosene, giustamente, di una vecchia norma del 1957, approvata quando peraltro il referendum abrogativo era solo un diritto sancito dalla Costituzione, non ancora applicabile per mancanza di una legge che lo disciplinasse. Il che sarebbe dovuto bastare ed avanzare perché le stesse autorità giudiziarie, chiamiamole così, diffidassero i malintenzionati da iniziative destinate a far perdere ai tribunali tempo e soldi. D’altronde, come si è già ricordato troppe volte in questi giorni, l’astensionismo referendario è legittimato dalla stessa Costituzione, che reclama per l’abrogazione popolare di una legge che vadano alle urne almeno la metà più uno, cioè la maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto. Un astensionismo non a caso raccomandato e praticato in altre occasioni referendarie anche da chi questa volta l’ha voluto contestare.
Ma c’è forse qualcosa più di un rischio. Scommetto che non mancherà il solito fascicolo aperto nell’altrettanto solito ufficio più o meno competente, giusto per rispettare il solito, anch’esso, principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, comportando quella norma del 1957 carcere e multa. Incredibile, ma vero. Incredibile come l’iniziativa referendaria assunta dalle regioni, col necessario vaglio di legittimità della Corte Costituzionale, e vero come il naufragio riservatole dagli elettori. Che per fortuna sono meno, molto meno sprovveduti di come li considerino certi pseudo-cultori della democrazia, referendaria e non.
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I promotori regionali, e relativi supporter, di questo bizzarro referendum contro le trivelle, si sono meritata – diciamo la verità – la filippica che il presidente del Consiglio ha voluto fare loro col messaggio televisivo diffuso appena chiuse le urne agli elettori e aperte agli scrutatori. Lo ha fatto prima ancora di conoscere i risultati completi, e l’ufficializzazione del decisivo dato astensionistico al quale egli ha tenuto a precisare di avere voluto contribuire, quasi per sfidare anche chi volesse ancora trascinarlo per questo, come si diceva, in qualche sede giudiziaria.
A rendere ancora più evidente la vittoria di Renzi ha contribuito la rabbiosa reazione al suo messaggio televisivo, estremamente critico verso la “vecchia politica”, regionale e nazionale, da parte del collega di partito e governatore della Puglia, Michele Emiliano. Che ha voluto ostinatamente e baldanzosamente assumere la guida della campagna referendaria ed ha tentato di rovesciare la situazione mentre arrivavano i primi risultati ufficiali, vedendo aspetti vittoriosi, e comunque di compiacimento, persino nella sconfitta impietosamente certificata dai numeri. Una sconfitta per Emiliano particolarmente umiliante anche sul piano umano, non essendo riuscito come governatore a portare la maggioranza a votare neppure nella “sua” Puglia, fermatasi – ha comunicato lui stesso davanti alle telecamere de La 7, dopo il messaggio di Renzi – al 40 per cento: quasi otto punti sopra la media nazionale di circa il 32. Solo la Basilicata è riuscita a superare il cosiddetto quorum.
L’unico conforto al governatore rosso della Puglia, e seguaci, lo ha dato, con la solita bizzarria dell’ormai ex centrodestra, il titolone del Giornale sui “16 milioni di italiani di voti contro Renzi”, ignorando i 35 milioni, a questo punto, di sì: quanti sono stati quelli che non hanno voluto votare, appunto, contro il presidente del Consiglio. Ai quali andrebbero aggiunti, al di là e contro le loro stesse intenzioni, come nel caso del capogruppo forzista alla Camera Renato Brunetta, gli oltre due milioni che hanno votato no al quesito referendario contro le trivelle, e quindi sì pure loro a Renzi, anche se il loro obiettivo vero era quello di garantire con il cosiddetto quorum di partecipazione la validità del referendum. Discorso, come ho già scritto su Formiche.net, da capogiro. Che è ormai la condizione politica in cui vive lo schieramento lego-grillo-berlusconiano.
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A far salire l’interesse degli elettori, oltre che la temperatura politica del referendum contro le trivelle, e il governo di Renzi, non è riuscita neppure la strumentalizzazione mediatica e politica cui si è prestata, volente o nolente, la vicenda giudiziaria lucana di Tempa Rossa. Una vicenda costata, fra l’altro, le dimissioni di Federica Guidi da ministra dello Sviluppo economico e il coinvolgimento nelle indagini, sinora, di un sottosegretario. Ma soprattutto scambiata dalle opposizioni, e dai dissidenti della maggioranza, particolarmente del Pd, come la prova di un governo e di una politica sporca, corrotta, condizionata dai petrolieri e affaristi contigui.
Resta senza risposta, per l’impossibilità di una controprova, solo una domanda critica verso Renzi insita in una intervista fatta alla Repubblica immediatamente prima del voto da Massimo Cacciari. Che, pur sicuro della “balla” costituita dal referendum contro le trivelle, ha attribuito al presidente del Consiglio la colpa di averlo troppo reclamizzato con l’invito all’astensione, e le polemiche che ne sono seguite. Diversamente, l’affluenza alle urne, secondo Cacciari, sarebbe stata ancora più bassa. Ma Renzi deve avere calcolato anche questo rischio, trovando perciò nel risultato finale un motivo in più per intestarsene il merito.