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Pregi e difetti del nuovo registro delle lobby istituito alla Camera

Laura Boldrini e Nichi Vendola

La recentissima approvazione del regolamento dell’attività di rappresentanza di interessi nelle sedi della Camera dei Deputati non può che ricevere il pieno sostegno da parte del mondo dei professionisti che da anni si battono per una disciplina della “lobby”. Più che la sua efficacia, va sottolineato l’aver sdoganato dal concetto di “camera oscura” l’attività di lobby e aver messo nero su bianco un testo che, se non altro, serve al Parlamento nella sua interezza per addivenire finalmente a una legge che effettivamente disciplini questa attività.

La rilevanza dell’iniziativa, giustamente rivendicata dalla presidente della Camera Laura Boldrini, giunge in una delle tanti fasi di delirio mediatico ed interpretativo sul concetto di lobby e sul ruolo del lobbista nel nostro paese: ho letto anche che, se ci fosse stata una legge allora il compagno dell’ex ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi, Gianluca Gemelli, sarebbe stato adeguatamente censito e pertanto visibile nelle sue attività. Ma siamo sicuri? Perché si pensa che una legge possa incredibilmente disciplinare questi casi assai esterni all’attività regolamentabile di lobby?

Per le aziende – come per qualsiasi soggetto che sia portatore di interesse – la valutazione della rete di interlocutori istituzionali da contattare per rappresentargli i temi di rilievo per la mission costituisce un fattore competitivo, difficilmente condivisibile con il pubblico e i concorrenti. Se, ad esempio, per promuovere una nuova tecnologia di batterie per la mobilità elettrica o per lo stoccaggio di energia, un’azienda definisce una strategia di incontri con interlocutori nella quale illustra le potenzialità della tecnologia e, conseguentemente, individua l’esigenza di provvedimenti normativi a sostegno della diffusione delle medesime, siamo certi che tale iniziativa e i contenuti del materiale discusso debbano essere messi a disposizione di tutti, concorrenti inclusi?

La regolamentazione approvata addirittura prevede che – all’atto dell’iscrizione al registro – si indichino i deputati che si intendono contattare e la “descrizione dell’attività”. Ovviamente, siamo culturalmente maestri nelle interpretazioni flessibili ma un professionista e anche un’azienda raramente hanno una visione piena della mappatura di deputati, sia perché i clienti e i fabbisogni cambiano sia perché a volte siamo di fronte ad una strategia “reattiva” ovvero di confronto con i deputati su provvedimenti in corso di discussione non individuabili nella fase di iscrizione al registro medesimo.

Non banale per i profili di competitività anche la rendicontazione a fine anno degli incontri effettuati e degli obiettivi perseguiti: la qualità e l’efficacia di un’azione di lobby, svolta da un professionista oppure da un’azienda o da un’associazione, si misurano con i risultati e con la rete di contatti. Credo che sarebbe poco accettabile una piena conoscenza al grande pubblico di queste informazioni. Cosa ben diversa dalla richiesta della relazione sulle attività da consegnare ad un soggetto (vogliamo pensare anche in questo caso all’ANAC?) cui sia affidata la vigilanza sulle attività e sui soggetti che le portano avanti.

Infine, un richiamo importante sull’esigenza di una simmetria della disciplina: difendere la trasparenza nella formazione dei provvedimenti di normazione primaria e secondaria deve porre obblighi sulle attività di lobbying ma anche, e non inferiori, sulla conoscibilità ex ante delle norme e dei relativi emendamenti. Ciò al fine di evitare incursioni notturne o episodi di decreti adottati ma scritti da operatori economici aventi accesso agevolato al legislatore.

Per cui, un grande sostegno a questa iniziativa se prodromica ad un dibattito reale sull’attività di lobbying e sugli obblighi e le sanzioni da definire per i lobbisti e per gli interlocutori istituzionali nei diversi livelli di formazione delle norme e di articolazione territoriale.

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