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Tempa Rossa, perché è coraggiosa la sfida di Matteo Renzi alla magistratura

Sarà pure “arrogante”, come lo definisce quel campione di umiltà e discrezione che non è il vice presidente forzista del Senato Maurizio Gasparri, per non parlare del suo collega di partito, e capogruppo alla Camera Renato Brunetta. Sarà pure “Bomba”, come lo sfotte Beppe Grillo sopra e sotto il palco del suo eterno spettacolo di comico e politico. Sarà pure uno “stalinista” fuori stagione o un “uomo del Mossad”, per fermarci alle ultime esplosioni di malumore di Massimo D’Alema. Sarà pure “cattivo”, come gli ha rimproverato Silvio Berlusconi rammaricandosi, forse a torto, di non avere saputo esserlo pure lui quando la fortuna o la bravura, o entrambe, gli hanno dato le occasioni di governare l’Italia. Apparirà addirittura un “ubriaco” al sempre più nervoso Giampaolo Pansa. Sarà pure stato troppo furbo, come ha sospettato educatamente Michele Arnese, contestandogli non a torto una concezione e applicazione non sempre coerente del principio di “opportunità”.  Ma mi sembra francamente difficile negare che Matteo Renzi abbia avuto il coraggio e la coerenza, rispetto al primato sempre rivendicato alla politica, di sfidare la magistratura che indaga da quasi due anni sugli affari petroliferi lucani e pugliesi, con tanto di intercettazioni, richieste di arresto, arresti e divulgazioni di telefonate che hanno provocato, per ragioni di opportunità, appunto, le dimissioni di Federica Guidi da ministro dello sviluppo economico. E fornito l’occasione alle opposizioni di tentare l’ennesimo assalto parlamentare al governo con le solite mozioni di sfiducia.

Magari, lo stesso Renzi si infastidirà, sempre per ragioni di presunta o reale opportunità, a sentirsi attribuire così esplicitamente una sfida al potere forte della magistratura, osservando di essersi limitato a mettersi a disposizione degli inquirenti di Potenza, in sede o in trasferta, per soddisfare le loro legittime curiosità su motivi, tempi e modalità di quell’emendamento alla legge di stabilità del 2015 preannunciato imprudentemente dall’allora ministra Guidi, quasi novella monaca di Monza, al convivente Gianluca Gemelli. Che era interessato con amici e soci agli affari che quella norma sbloccava, dopo ben 27 anni di paralizzanti conflitti amministrativi, cioè burocratici.

Ma la sfida di Renzi è nei fatti, come dimostra il sostanziale stupore opposto dagli inquirenti lucani, che ritenevano potessero bastare a chiarire loro le idee i preannunciati incontri con la dimissionaria Guidi, che non risulta indagata allo stato delle cose, e con la ministra dei rapporti col Parlamento Maria Elena Boschi, che per il suo ruolo di governo gestì il passaggio di quell’emendamento al Senato, e poi alla Camera. Incontri di cui quello con la Boschi ha avuto la precedenza e si è appena svolto, non si sa con quale effetto sulle indagini.

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Dichiaratamente convinto com’è da tempo che la politica industriale del governo spetti allo stesso governo, e non alle lobby, ma neppure alla magistratura, pur nel contesto di legittime inchieste su presunti reati ambientali o d’altro tipo, Renzi si è lodevolmente attribuita la paternità di quel maledetto emendamento. Lobbisti e quant’altri, familiari e semplici frequentatori di ministri, non avevano quindi avuto bisogno di influenzare nessuno. Osservazione, questa, non irrilevante se pensiamo che è anche di “traffico di influenze illecite” che è accusato il convivente dell’allora ministra Guidi. Che peraltro è sinora scampato all’arresto chiesto dall’accusa ma rimane a rischio, essendo stato presentato ricorso contro il rifiuto alle manette opposto dal giudice delle indagini preliminari.

Sarebbe veramente curioso, a dir poco, se gli inquirenti continuassero a fare finta di niente, lasciando cadere nel vuoto l’assunzione di responsabilità fatta dal presidente del Consiglio e la sua disponibilità, praticamente, a contribuire all’inchiesta. A meno che qualcuno non tema negli uffici giudiziari di Potenza, o altrove, una svolta paradossalmente suicida delle indagini. Suicida, perché il tanto discusso emendamento alla legge di stabilità del 2015 potrebbe passare alla competenza del tribunale dei ministri se si continuasse a considerarlo l’anticamera di un reato, una volta accertatane in modo formale la responsabilità del governo: dai ministri competenti al presidente del Consiglio in persona.

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La competenza del tribunale dei ministri avrebbe per gli inquirenti l’inconveniente costituzionale di un preventivo passaggio parlamentare. Occorrerebbe cioè l’autorizzazione della Camera di appartenenza del ministro che si vorrebbe o si dovrebbe indagare e processare. O del Senato, se il membro del governo sotto procedimento non fosse un parlamentare, come nel caso di Renzi, o della dimissionaria Guidi.

I numeri ballerini della maggioranza al Senato, per quanto migliorati con i recenti rinforzi di Denis Verdini ed altri fuoriusciti da Forza Italia, potrebbero o dovrebbero creare preoccupazioni a Renzi nel caso in cui le opposizioni avessero l’occasione di spingerlo verso un processo, non essendo riusciti sinora a sfiduciarlo.  Una ragione in più per considerare una sfida – una sfida coraggiosa – quella del presidente del Consiglio partita con l’intervista a Lucia Annunziata. Della quale si può a questo punto anche comprendere e condividere la decisione di permettere a Renzi, come le è stato contestato, di rivoluzionare la sua “scaletta” rinviando all’ultimo momento l’intervista domenicale di mezz’ora programmata con lo sfortunato candidato di Berlusconi al Campidoglio, Guido Bertolaso.

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