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Obama sulla Libia, nuovi mea culpa e nuovi messaggi agli alleati

“Non aver avuto un piano su cosa fare in Libia”. E’ questo secondo Barack Obama il più grande errore commesso dalla sua presidenza. Riferimento al dopo-Gheddafi, ossia alla fase di transizione dopo l’intervento militare occidentale del 2011 che ha comportato la caduta del rais, che “era la cosa giusta da fare”, ha aggiunto il presidente americano durante un’intervista a “Fox News Sunday“.

LA POSIZIONE ATTUALE E QUELLA DI UN MESE FA

Poco meno di un mese fa, l’Atlantic pubblicò un’intervista monstre a Obama, in cui, tra le varie cose, il presidente Usa definì l’intervento in Libia “un fallimento”, non tanto per l’azione in sé, ritenuta giusta e corretta (ossia aveva tutte le coperture e le accortezze del caso: “Evitammo un grande numero di morti e feriti civili e quella che quasi sicuramente sarebbe stata una guerra civile lunga e sanguinosa”, disse), ma per gli esiti. “Nonostante tutto la Libia è ancora un disastro” è la la lettura attuale. “E’ un cazzo di casino” sono le parole che il giornalista Jeffrey Goldberg s’è sentito riferire dal presidente degli Stati Uniti in via confidenziale. Ma quella espressa domenica sera a Fox non è una posizione in contraddizione con la precedente: Obama sottolinea e sottolineava soprattutto le carenze nella fase di transizione successiva all’intervento, per cui la Casa Bianca incolpa in larga parte gli alleati (“Credevo che l’Europa, data la vicinanza con la Libia, sarebbe stata più coinvolta nella gestione della situazione dopo il conflitto” disse all’Atlantic).

LO SPIN

Dietro all’uscita di Obama su Fox si intravvede un certo spin politico: adesso gli Stati Uniti stanno facendo pressione sugli alleati in un momento delicato della crisi. Il premier designato Fayez Serraj s’è insediato da un paio di settimane ed ha ricevuto feedback positivi soprattutto nelle zone governate dall’ex pseudo-esecutivo di Tripoli, ma manca ancora l’approvazione definitiva da parte del parlamento, in esilio a Tobruk, legittimato internazionalmente a votare l’appoggio politico al governo. A margine del G7 degli Esteri ad Hiroshima, in Giappone, il segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, avranno un incontro riservato in cui la questione libica giocherà un ruolo centrale: “La cooperazione tra Italia e Stati Uniti è stata un po’ la chiave attraverso la quale a dicembre è stato messo sui binari giusti il processo di stabilizzazione della Libia, [un processo] molto graduale, molto incerto, i cui esiti non sono affatto scontati”, ha già annunciato Gentiloni. Il messaggio lanciato da Obama interessa Roma quanto Londra e Parigi, ritenute dagli Stati Uniti di nuovo responsabili della gestione della crisi.

LA PREOCCUPAZIONE

La principale preoccupazione di Washington è la stabilità del Paese correlata all’attecchimento dell’hotspot locale dello Stato islamico: venerdì il generale David Rodriugez, capo del comando operativo Africa (Africom) a cui il Pentagono assegna la competenza della Libia, ha dichiarato che ci sono dai 4 ai 6 mila combattenti dell’IS sul suolo libico, “raddoppiati negli ultimi 12/18 mesi”. Una proiezione preoccupante, se non dovesse essere invertito il trend rapidamente: analisi certamente reali (un esempio: domenica il personale di alcuni campi petroliferi a Ras Lanuf ed Es Sider è stato evacuato per paura di attacchi da parte dei baghdadisti), ma forse anche su questo c’è un po’ di spin, se si pensa a come certe dichiarazioni arrivino quasi contemporaneamente.

Tuttavia i calcoli di Africom escono dai dati ricavati dalle osservazioni dei velivoli che battono continuamente il territorio, come il Dash 7 fotografato anche ieri sopra a Bengasi, coadiuvati e confermate da qualche elemento a terra. Il Cessna americano è parte di quel set di aerei e droni che tiene la Libia sotto monitoraggio costante da parte degli americani, ma anche degli italiani, degli inglesi e dei francesi (che però danno stime più elevate anche per interesse nell’accelerare l’azione anti IS, ritenuto preoccupante perché potrebbe “esportarsi” verso sud, nel Sahel d’influenza francese).

LA STRATEGIA

Per il momento si tratta di una raccolta d’informazioni, che saranno usate nell’immediato per compiere attacchi aerei mirati contro leader o raggruppamenti importanti di baghdadisti (come già s’è visto fare), oppure in futuro nell’ottica di una missione più ampia. La linea attualmente condivisa da quasi tutte le cancellerie occidentali è attendere che il governo Serraj riceva il definitivo sostegno e poi vedere: manca, come s’è detto, solo il voto dell’HoR a Tobruk, dato che a Tripoli l’esecutivo s’è sciolto e lo pseudo parlamento s’è ricostituito nel Consiglio di Stato; con dei distinguo che segnano le nuove invettive, ormai quasi ignorate, dell’ex premier Khalifa Ghwell e del presidente della Camera Nouri Abusahmain. Su Tobruk sta pressando il delegato della Nazioni Unite Martin Kobler: nel weekend al Cairo Kobler ha incontrato Agila Saleh, presidente dell’HoR, con altri rappresentati. Voto assicurato nel giro di tre o cinque giorni (probabile il 14 aprile), anche sotto le pressioni egiziane: e chissà se le dichiarazioni di Obama non siano uno spin anche verso l’Egitto, primo alleato americano nel Nordafrica, che dopo la vicenda Regeni si trova in una fase delicata delle relazioni con l’Occidente.

LA VISITA

Lunedì l’inviato speciale di Obama per la crisi libica, Jonathan Winer, ha incontrato in Algeria il ministro per gli affari del Maghreb Abdel Kader Messahel: hanno discusso su come i due Paesi possono aiutare il futuro del governo Serraj. Probabile che al centro della discussione sia finita anche la crisi di sicurezza: l’Algeria, nazione dove le infiltrazioni jihadiste sono sempre in agguato, condivide un lungo confine con la  Libia, l’area della marcoregione Fezzan, una fascia dove i confini si perdono nel Sahara aprendo spazi a traffici di ogni genere ed in cui da poco hanno fatto capolino gruppi collegati allo Stato islamico.

 


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