Peccato che i più dominanti argomenti delle campagne elettorali e giudiziarie in corso, ma anche la scarsa diffusione del giornale prescelto dagli interessati, nonostante un astioso rilancio di Marco Travaglio sul suo Fatto Quotidiano, abbiano fatto passare inosservata una gustosa polemica. E’ quella condotta anche a suon di colpi bassi da una giovane coppia di professori universitari contro i 56 giuristi che hanno praticamente aperto con una specie di manifesto, e con largo anticipo, la campagna referendaria autunnale del no alla riforma costituzionale di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi.
La coppia che ha accettato la sfida opponendo e motivando con un misto di dottrina, passione e sarcasmo il suo sì ai 56 giuristi del no, in qualche modo capeggiati dal celeberrimo Gustavo Zagrebelsky, è costituita dai coniugi Elisabetta Gualmini e Salvatore Vassallo. Che cito in ordine rigorosamente alfabetico, per fortuna coincidente con la cavalleria.
Elisabetta Gualmini, 48 anni da compiere il 17 maggio prossimo, per cui merita gli auguri anticipati, insegna Scienza politica all’Università di Bologna, alternando la docenza e gli studi, fra l’altro, con gli incarichi di vice presidente e assessore alle politiche sociali e abitative nella giunta regionale dell’Emilia Romagna. Salvatore Vassallo, 50 anni compiuti il 17 novembre scorso, insegna pure lui all’Università bolognese: Scienza politica comparata.
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Accomunati anche sul piano politico, cioè da simpatia e militanza per il partito guidato da Renzi, di cui Vassallo è stato anche deputato, la simpatica e documentatissima coppia bolognese ha scoperto che l’età media dei 56 giuristi del no è di 69 anni: una ventina in più della loro. Una media letteralmente rovinata all’insù, almeno per i cultori della giovinezza, dai 14 ex giudici costituzionali della compagnia. Fra i quali ce ne sono ben 10, dell’età media di 81 anni, che hanno avuto anche la fortuna di essere stati presidenti della Corte Costituzionale, e di esserne quindi ancora emeriti, con “annesse prerogative”, hanno impietosamente ricordato Elisabetta Gualmini e Salvatore Vassallo risparmiando però ai lettori, e agli interessati, di precisarne meglio natura e costi. Che, coi tempi che corrono, dominando il populismo – si dice così? – più sfrenato, tanto caro a Travaglio, non li renderebbero popolari.
Certo, 10 presidenti su 14 giudici costituzionali, per quanto emeriti, fra i 56 giuristi messisi alla testa della campagna referendaria del no alla riforma del bicameralismo e di altro ancora sono tanti. E fanno obbiettivamente impressione. Ma sono stati e sono il prodotto di quelle “vorticose rotazioni”, come le ha definite la coppia accademica del sì, in uso nel Palazzo della Consulta, sede della Corte Costituzionale, situata di fronte al Quirinale. Una pratica, quella delle rotazioni, che avendo a lungo premiato o privilegiato per la presidenza il giudice di maggiore anzianità di servizio, e quindi più vicino alla scadenza novennale del mandato di componente della Corte, ha permesso in un solo anno, nel 2011, di vederne avvicendare ben tre al vertice dell’istituzione.
In ogni caso, sarcastica o no che sia stata l’osservazione, o certificazione, al di là delle stesse intenzioni, la coppia accademica del sì ha ammirato il carattere “lodevolmente lucido” di “tutti” i più anziani componenti della squadra dei 56 sostenitori del no. Che sono accomunati dalla preoccupazione di vedere la Costituzione e, più in generale, gli equilibri istituzionali peggiorati dalla riforma. Non certo dal timore, credo, di assistere al salto nel buio di una crisi di governo, visto che Renzi ha deciso di giocarsi col referendum tutta la sua carriera politica, per cui si dimetterebbe in caso di sconfitta, facendo drizzare i capelli e levando forse anche il respiro al povero, incolpevole presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che sarebbe costretto a trovare chissà quale cervellotica soluzione, tecnica o politica, alla crisi o ad arrendersi alle elezioni anticipate. Dalle quali, con leggi elettorali peraltro diverse l’uno dall’altro, uscirebbero due rami del Parlamento prevedibilmente ingovernabili, in cui il governo rischierebbe di avere la fiducia in uno solo di essi.
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Particolarmente pungente sul piano accademico, ma anche su quello della logica comune, è la critica mossa dalla coppia bolognese di professori ai tentativi, che hanno in animo di compiere i critici della riforma, di cambiare le regole referendarie senza mettere mano alla Costituzione. Cioè di fare svolgere non un solo referendum confermativo su tutta la riforma approvata dal Parlamento con le lunghe procedure imposte dalla stessa Costituzione, ma più referendum su parti distinte della riforma, che andrebbero separate non si sa bene se dalla Cassazione o dalla Corte Costituzionale. Una necessità o opportunità, questa, che gli innovatori non avvertirono quando promossero e vinsero la battaglia referendaria del 2016, con un solo quesito, contro la riforma costituzionale approvata dalla maggioranza di centrodestra. Il cui progetto era stato romanticamente impostato in una baita dolomitica dall’allora berlusconiano Giulio Tremonti e dal leghista Roberto Calderoli, con la supervisione di Umberto Bossi fra polenta e salsicce. Una riforma tuttavia meno improvvisata di quella del 2001 varata dal centrosinistra sulle competenze regionali, cui quella di Renzi cerca di porre rimedio, visti i danni prodotti per ammissione della stessa sinistra, e certificati dai tantissimi interventi richiesti alla Corte Costituzionale.