A forza di insistere, polemizzare, battere i pugni sul tavolo, Matteo Renzi ha ottenuto soddisfazione: l’Unione europea ha dato via libera alla flessibilità. Un risultato personale e anche una buona notizia per l’Italia schiacciata dal debito e bloccata da una crescita che non parte (anche l’occupazione, finito lo sprint degli incentivi, adesso comincia a fare i capricci). Dunque, esiste un “tesoretto” di 14 miliardi circa, più o meno equivalente all’aumento delle imposte indirette necessario a compensare quelle clausole di salvaguardia che slittano in avanti anno dopo anno.
Bene, ma come verranno impiegati i margini esistenti? La Ue, la Bundesbank, la Germania, il Fondo monetario internazionale chiedono che serva a ridurre il debito pubblico rispetto al prodotto lordo, che continua a salire perché cresce il reddito in quantità e il pil non aumenta abbastanza per contrastarlo.
Renzi ha già annunciato una tale pioggia di misure tra tagli fiscali e aumenti delle spese da mangiarsi tutto lo spazio disponibile e forse qualcosa di più.
Pier Carlo Padoan nell’intervista alla Stampa annuncia un decreto “Finanza per la crescita” per finanziare le piccole e medie imprese, mentre la riforma della legge di bilancio dovrebbe rendere i conti più agili e flessibili. Ma il ministro dell’Economia non si sbilancia sul piatto forte rinviando tutto alla legge di stabilità del prossimo autunno.
Il caso vuole che a ottobre ci sarà il referendum costituzionale, dunque la logica della politica implica che fino ad allora continueranno a piovere promesse, mentre tutto potrà cambiare a seconda che vinca il sì o il no. Il referendum introduce una incognita, un fattore di forte instabilità tale da non consentire di affrontare in modo serio la legge di stabilità. Questo a Bruxelles lo sanno, ma hanno fatto una scelta politica. Alla Spagna hanno consentito di andare alle nuove elezioni anticipate senza la mannaia di altre misure d’austerità. All’Italia di superare il referendum. Si parla di verifica a ottobre, una data scelta non a vanvera.
Dunque nei prossimi mesi dovremo baloccarci con idee e proposte più o meno campate in aria, gettate in pasto alla stampa tanto per agitare le acque? Su quante nuove riforme dell’Inps proposte dal presidente Tito Boeri dovremmo discutere in convegni e talk show televisivi? Oppure il governo, il brain trust di Palazzo Chigi, il ministero dell’Economia, il nuovo ministro dello Sviluppo, il ministro del Lavoro, si metteranno attorno a un tavolo per stabilire almeno le linee guida sulle quali indirizzare una politica economica per la crescita?
Non è così difficile in fondo individuare alcuni punti fermi, molto più complicato è scegliere come affrontarli. Il primo è che l’Italia ha perso una parte importante del suo potenziale produttivo. Per recuperarlo non può sperare solo sulle esportazioni, ma deve aumentare l’offerta interna di prodotti e servizi. Affinché non sia una offerta assistita e improduttiva, deve essere competitiva. E qui casca l’asino. Negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso terreno. Il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 30% in Italia rispetto all’aumento della Germania. Un gap incolmabile. Ma la distanza si è allargata anche rispetto ad altri paesi. Ciò vuol dire che la priorità dovrebbe essere ridurre la dinamica del clup e ciò si fa con la politica fiscale (riducendo imposte e contributi), con la politica del lavoro (puntando su contratti aziendali e in questo la legge Hollande va più avanti del Jobs act), con l’aumento degli investimenti (impianti, macchinari, utilizzo più ampio di internet, organizzazione produttiva, ecc.) e con un balzo in avanti nella produttività delle aziende e del sistema.
Insomma, una strategia produttivistica, quella che in altre fasi è riuscita a tirar fuori l’Italia da crisi profonde, forse tanto quella attuale (basti pensare alla seconda metà degli anni ’70). Si dice che allora c’era la possibilità di svalutare la lira. A parte il fatto che l’euro è stato svalutato in modo consistente negli ultimi due anni (quasi il 30%) grazie alla politica monetaria della Bce, quel che si dice è vero solo in parte. La memoria è corta, quella storica cortissima.
Nel 1979 la Fiat sull’orlo del crac chiese una consistente svalutazione della lira. La Banca d’Italia disse no. E cominciò lo scontro con il sindacato. La Fiat vinse, il sindacato (o meglio la Cgil) sbagliò strategia. La lira si rafforzò fino alla metà degli anni ’80 quando Bettino Craxi se ne uscì con la proposta della lira pesante. E’ curioso che i craxiani di allora oggi siano i paladini dello svalutiam svalutiamo. Si dirà che la coerenza non s’addice ai politici. Forse, ma poi finiscono sommersi dall’onda dell’anti politica.
Se l’Italia mette in campo una strategia per il rilancio produttivo diventa credibile anche il suo rifiuto ad affrontare la questione del debito, cioè dello stock nominale di debito, che non piace a Padoan e che, invece, viene sollevata in modo esplicito non solo dal Fondo monetario internazionale, ma da influenti economisti e politici dell’Eurolandia. Altrimenti di qui all’autunno prenderà piede l’idea di una “ristrutturazione ordinata”, come si dice con un eufemismo, o un default controllato. Con effetti catastrofici, dice Padoan, e ha ragione. Ma proprio per questo occorre affrontare, come si dice, il toro per le corna.
Stefano Cingolani