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Vi racconto il terremoto in Friuli del 6 maggio 1976

importanza

Ricordo tutto. Faceva caldo, a Udine. Faceva caldo, quella maledetta sera di 40 anni fa. Una cappa umida, pesante, da giornata estiva, che mi rendeva insopportabile, sulle spalle, anche soltanto la giacca di lino. Mancavano pochi minuti alle 21 e le vie del centro erano come lo sono sempre a quell’ora, ancora adesso: deserte. Deserte e silenziose dopo lo scalpiccìo del passeggio e il tintinnare dei calici fuori dalle osterie, garbata colonna sonora di quella che era ed è una garbata città di provincia. E c’era qualcosa di strano, nell’aria, oltre alla temperatura, così insolita per essere il 6 di maggio. Forse era l’inspiegabile fioritura precoce, carnosa, quasi africana, sugli alberi dei giardini. O forse quell’atmosfera ferma, immobile, da vigilia di qualcosa. Già, “vigilia di qualcosa”… fin troppo facile scriverlo ora.

Ricordo, infatti, che pochi attimi dopo aver messo piede in casa – erano le 20.59 – era arrivata “Quella Cosa”. Prima un sordo mugolio, un inquietante rantolo dai toni bassi che via via era salito verso gli acuti, fino a esplodere in un raggelante urlo rabbioso della terra. Poi, di colpo, il pavimento che diventava gomma, quasi liquido sotto i piedi, mentre le pareti gemevano, scosse da un irrefrenabile fremito. “Il terremoto, il terremoto!”. Ricordo di aver trascinato e stretto mamma e papà sotto un architrave, pensando che fosse arrivata l’ora – la mia, la nostra – e che la casa sarebbe crollata. E noi sotto. Lo avevo pensato senza paura – ci feci caso tempo dopo – comprendendo in un attimo che quando non puoi farci niente può in fondo essere facile morire.

“Quella Cosa” durò 55 secondi. Una vita. Poco più a Nord di Udine, già dai primi rilievi morenici, da Tricesimo in su, là dove il cuscino di ghiaia comincia ad assottigliarsi e diventa roccia, in quegli stessi istanti la morte era arrivata per davvero, come una grande falce, facendo schizzare i pennini dei sismografi al 6,5 della scala Richter (10 Mercalli). Uccidendo mille persone, facendo 3mila feriti e lasciando 100mila senzatetto, oltre a 6.500 imprese disastrate o totalmente distrutte e 18mila uomini e donne senza lavoro.

Tutto in meno di un minuto di violenza immane: le spallate di quello che nella tradizione popolare – orrifica e favolistica – era chiamato in lingua friulana “lOrcolat”. Lo avrebbero spiegato poi così, i nonni, ai nipotini terrorizzati e stretti l’un l’altro sotto la tenda di un accampamento di fortuna: il Mostro rinchiuso nella montagna, ridestandosi, aveva sbriciolato vecchie cascine di sassi e moderni condomini, polverizzato castelli e spuntato campanili, sollevato strade e abbattuto ponti. Di fatto il cuore del Friuli, bello da piangere dove è dolce e verde, ma struggente anche là dove è ruvido e aspro – da Gemona a San Daniele, da Tarcento a Buia, da Magnano a Montenars, da Osoppo a Moggio – era ridotto a un povero muscolo, infartuato e sanguinante.
Ricordo anche quello. Così come la sua più dolorosa sintesi: lo scempio di Gemona, il mattino seguente, dopo un viaggio in uno scenario di guerra sulla vecchia Opel che avevo “rubato” a papà, tra un viavai di ambulanze e colonne di mezzi militari.

“Corri a Gemona, corri a Gemona – mi avevano detto -. È là che è la fine del mondo”. Ci ero corso. Avevo visto. E confesso di aver pianto, con il taccuino da patetico cronista principiante che mi tremava tra le mani. Nella parte bassa del paese, vicino alla statale, vidi un condominio ridotto a un’amara millefoglie di calcestruzzo, l’una sull’altra, in un groviglio di inutili armature rivolte verso il cielo. Ne avevo preso nota cercando di non pensare a chi, là dentro, la sera prima, aveva messo a letto i bambini, aveva litigato per una sciocchezza o non aveva fatto in tempo a fare l’amore.

Ma ero andato avanti. Era lassù, in città vecchia che volevo arrivare. Ancora una svolta, ancora uno sforzo, ancora un pilastro da scavalcare e poi… Poi più nulla: né il Duomo, né la salita di via Bini, né niente di niente. Soltanto un’immane distesa di pietre coperte di polvere giallastra dove uomini in divisa e cani con la croce rossa cercavano di cogliere chi un lamento, chi un grido d’aiuto, chi una traccia olfattiva. E su quel cimitero a cielo aperto dov’erano sepolti 400 dei mille friulani uccisi dal sisma, in quella canicola quasi agostana provocata dai titanici attriti delle faglie sotterranee del monte San Simeone – l’epicentro, l’antro dell’Orcolat – stagnava già l’odore denso della morte, frammisto a quello acuto del disinfettante.

Ricordo anche quello. Quarant’anni dopo ce l’ho ancora nel naso. Così come scolpite nella memoria conservo tante immagini terribili che per rispetto di quei morti non voglio riportare. Perché altri, mille e più, sono gli episodi visti, sentiti raccontare o letti negli articoli di quelli bravi, dei “grandi” del mio mestiere che mi ero ritrovato accanto – preziosi doni del destino – come primi maestri sul campo. Mille frammenti belli o strazianti, comunque sempre nobili, fotogrammi indelebili di una tragedia immensa e di dolori atroci, ma racchiusi con dignità in occhi senza lacrime. Così ricordo le mani piagate di quell’uomo che, a guance incredibilmente asciutte, dopo aver sepolto moglie e figli e rimasto solo al mondo, ripuliva uno a uno dalla calce, come un automa, con colpi metodici di cazzuola, i mattoni superstiti di quella che era stata la sua casa. “È per tirare su quella nuova”, spiegava calmo a noi cronisti. E intanto impilava quei mattoni con ordine istintivo, non imparato ma da sempre serbato dentro.
Ricordo quei senzatetto che si preoccupavano di chiedere in Comune dove avrebbero potuto pagare le tasse.

O la vecchina vestita tutta in nero come usava ancora nei paesi di montagna – in nero dal fazzoletto sul capo alle calze – che in una cucina da campo dell’esercito, davanti al vassoio colmo di cibo che le veniva porto da un giovane alpino, chiedeva in friulano “Trop isal?”, quant’è?, mettendo mano al portamonete come fa chi non è stato abituato a ricevere qualcosa gratis dallo Stato. E ancora quella famiglia di Colloredo di Montalbano che voleva regalare – «per il disturbo» – il suo ultimo “tesoro” superstite, due salami, a un gruppo di reclute affrante. Ricordo le mogli di grandi imprenditori che nei cortili delle fabbriche semidistrutte, in jeans e maglietta preparavano e distribuivano i pasti agli operai rimasti come loro vicino al posto di lavoro, in tenda e roulotte. Ricordo i meravigliosi alpini della Julia che si erano strappati i gradi per lavorare in quell’inferno, perché quando si aiuta non esistono colonnelli o soldati semplici.

“Italia di serie A” sintetizzò sul Giornale Nuovo di Milano Egisto Corradi, l’inviato speciale italiano più bravo dell’epoca, caposcuola indiscusso di una generazione di giornalisti, un parmigiano dagli occhi dolcissimi e dal cuore incredibilmente grande, proprio lui che ebbi la fortuna e il privilegio di ritrovarmi in quei giorni come primo Maestro di cronaca. Per me, ragazzo di provincia con il sogno del giornalismo, conoscere Corradi era come per un ciellino incontrare di persona Gesù Cristo. Ricordo che quando mi presentai per la prima volta gli dissi: “Io sarei Guido Mattioni”, usando un condizionale che davanti a lui mi sembrava più opportuno. E ricordo il suo bonario “Guarda che devi darmi del tu, altrimenti non andiamo mica d’accordo”, cantilenato con accento parmigiano. Gli devo tanto, se non tutto, a Egisto, incominciando dal fatto che il cronista non può essere mai cinico – come vorrebbe una stupida retorica – ma deve commuoversi o gioire, indignarsi o incazzarsi insieme alle persone di cui si annota le storie. Perché soltanto così può poi raccontarle per davvero bene, come si deve: e cioè “vere”. Non a caso Indro Montanelli aveva voluto che a descrivere quel dramma immane fosse per primo lui, che di drammi ne aveva conosciuti e narrati altri – dalla “sua” personale ritirata di Russia, da giovane ufficiale, al disastro del Vajont, fino a quel suo viavai Milano-Saigon durato anni per raccontare la guerra del Vietnam ai lettori del Corriere della sera.

Ricordo tante altre cose: il “detta, detta, fai in fretta, che ho Egisto e il ‘Moncio’ in attesa!” gridatomi nella cornetta da Milano dal recordman degli stenografi Vittorio Frigerio, al quale dettai emozionatissimo il mio primo “pezzo” dal telefono a gettoni di un bar. Io, inesperto, andavo piano perché non potevo immaginare che lui avesse già annotato tutto e attendesse impaziente il seguito. Lo dettai come mi aveva insegnato Gianni Moncini (l’indimenticabile “Moncio”, pistoiese dai capelli rossi): ovvero leggendo e scandendo anche i punti, le virgole e i punti e virgola, perché così si imparava che cosa dovesse essere una corretta punteggiatura. Ricordo la compiaciuta incredulità di mia mamma, prima maestra di belle lettere, nel leggere all’indomani, su un grande quotidiano nazionale, la sigla di suo figlio: quel “g.m.” scritto in minuscolo, ma in neretto, dato che per la firma completa a quei tempi bisognava doverosamente attendere dei mesi. Prima di quella, dopo qualche articolo di prova sul campo e il placet in Direzione di quelli bravi che ti controllavano – “sì, il ragazzo si comporta bene” – sarebbe arrivata la progressiva gratificazione di un “g.matt”, sigla di ben quattro lettere. Un’emozione tale, lo ricordo benissimo, che pagai da bere a tutti.

Ricordo poi che di “serie A” fu anche la ricostruzione del Friuli, portata a termine in soli dieci anni lasciando a bocca aperta l’Italia e il mondo. Senza scandali né ruberie, ma con esempi di recupero mozzafiato come quello del gioiello architettonico di Venzone, paese tirato di nuovo su – e più bello di prima – usando le sue stesse pietre spezzate e cadute, ma censite e numerate dalla gente del posto, una a una.

Ricordo però che “Italia di serie A” lo furono anche le migliaia di lettori, gente semplice che mentre Corradi prendeva i suoi appunti, si commuoveva e poi li scriveva, salivano ininterrottamente le scale della vecchia redazione del Giornale di Montanelli, in piazza Cavour a Milano, per portare il loro contributo, piccolo o grande, ai friulani. Arrivavano lasciando quel che in proporzione potevano permettersi, dall’assegno milionario del cumenda alle mille lire della pensionata. Più di due miliardi e mezzo di lire fu la cifra finale – nel 1976! – affidata da loro a un “foglio” che aveva in fondo soltanto due anni di vita. Dieci volte più di quanto avesse raccolto il grande e storico Corriere.

Sì, ricordo anche questo.


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