Ad alleviare la paura di Beppe Grillo di avere compromesso, col pasticcio della sospensione del sindaco di Parma Federico Pizzarotti, le sorti delle candidature grilline meglio piazzate nella campagna elettorale per le amministrative del 5 giugno, ha provveduto con spregiudicato tempismo il segretario leghista Matteo Salvini. Che, riprendendo un’idea già anticipata nelle settimane scorse dalla sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, ha annunciato la preferenza per i grillini nei ballottaggi che li dovessero vedere contrapposti a esponenti del Pd. E’ ossigeno, in particolare, per Virginia Raggi a Roma.
Quest’asse tra fascio-leghisti e grillini, per quanto locale nell’annuncio di Salvini, vista l’importanza nazionale della posta capitolina, è l’ultimo colpo al progetto di un rinnovato centrodestra coltivato da Silvio Berlusconi. Che è arrivato di recente a parlare di un accordo “di base” già esistente per un nuovo governo, con tanto di spartizione di ministeri tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia. Un accordo che a parole neppure Salvini esclude, pur tendendo la mano alla Raggi per il Campidoglio.
E’ proprio vero che non c’è, nel caso di Berlusconi, pur proiettato ogni tanto verso un nuovo governo di larghe intese dopo una caduta di Renzi, peggiore sordo di chi non vuole sentire.
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Sulla inopinata sospensione del sindaco di Parma, detto e scritto tutto quello che si doveva contro i vertici palesi e occulti del Movimento 5 Stelle, qualcosa credo che si debba dire e scrivere anche a carico del Partito Democratico. Sia quello locale sia quello nazionale.
Tutta la faccenda di Pizzarotti, che ha funzionato come miccia per accendere quel barile di polvere che era ormai diventato il rapporto fra lui e il vertice del suo movimento, nasce da un esposto alla locale Procura della Repubblica presentato da un senatore piddino per due nomine fuori concorso disposte al Teatro Regio di Parma dal sindaco e dalla competente Fondazione. Ne è derivata un’inchiesta per abuso d’ufficio. Che pure è un reato paragonato da Pier Luigi Bersani alla banalità di una multa per un camionista.
Si chiami come vuole e appartenga al gruppo che si è scelto, fra i vari che compongono il partito del presidente del Consiglio, quell’esponente parmense del Pd ha fatto una confusione inquietante fra la sua attività politica e l’azione giudiziaria.
Anziché o prima di scomodare la magistratura, consentendole ancora una volta di intervenire a gamba più o meno tesa nella politica, quel parlamentare avrebbe dovuto protestare e muoversi in altre sedi. In quella politica esercitando il suo mandato cosiddetto “ispettivo” con una bella interrogazione al Ministero dell’Interno. In sede amministrativa egli avrebbe potuto attivare i colleghi di partito perché sollevassero il problema nel Consiglio comunale. Dove il sindaco avrebbe potuto fornire i chiarimenti, non sembrandomi Pizzarotti propenso a sfuggire alle proprie responsabilità e ad un confronto.
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Se Matteo Renzi, al di là della sicurezza che ostenta pubblicamente per comprensibili ragioni di opportunità politica, fosse in realtà preoccupato – come mi risulta da parecchie fonti – delle troppe coincidenze verificatesi fra scadenze politiche ed eventi giudiziari, deve rendersi conto di guidare una formazione politica giovane solo anagraficamente. In realtà, molto meno giovane, diciamo pure anzianotta, composta dalla fusione fra due partiti di antiche origini. Uno dei quali, il Pci e sigle successive, dal garantismo dei primi decenni di opposizione tutta ideologica passò negli anni Novanta, specie dopo la caduta del comunismo, ad un’azione di spregiudicato uso di ogni mezzo per sottrarsi alle macerie del muro di Berlino e perseguire ugualmente l’obiettivo del potere. Sino a imbracciare le armi giudiziarie contro gli avversari, schiacciandosi sulle Procure e, più in generale, sulla magistratura. Che nel frattempo, avendo svolto ruoli di supplenza già negli anni del terrorismo, si era alquanto allargata nella interpretazione dei propri compiti.
Il Procuratore Generale della Corte d’Appello, Roberto Scarpinato, non si è inventata dalla mattina alla sera la convinzione che anche la magistratura ordinaria meriti l’aggettivo “costituzionale”, come l’omonima Corte sancita dall’articolo 134 della Costituzione, e abbia funzioni di “vigilanza”, come ha detto di recente alla Repubblica senza che scoppiasse il finimondo politico, “sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze di governo”. E’ una convinzione maturata fra le toghe, e non solo nella mente di Scarpinato, in molti anni di lavoro. E purtroppo con il tacito consenso dei partiti che avrebbero dovuto invece difendere “il primato della politica”, reclamato ora da Renzi.
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Il Pci poi Pds, poi Ds, ha purtroppo tollerato e praticato la scorciatoia giudiziaria, per esempio, per liberarsi prima di Bettino Craxi e poi di Silvio Berlusconi. Con meno fatica nel primo caso, date la consistenza elettorale e la friabilità infine del Partito Socialista, con più fatica nel secondo caso, per i voti che l’ex Cavaliere è riuscito per molto tempo a conservare, prima del declino elettorale degli ultimi anni. E di alcuni obiettivi errori comportamentali che poteva risparmiarsi.
Ecco, a Parma, contro il sindaco Pizzarotti, anche a costo di portare fieno al vertice del movimento grillino che è impegnato allo spasimo nel tentativo di rovesciare il governo Renzi, si è vista l’orma del partito comunista o post-comunista di stampo giustizialista, abituato a prendere la scorciatoia giudiziaria per raggiungere i suoi obiettivi di contrasto.
Se di queste orme o abitudini non farà in fretta a liberarsi, e con decisione, Renzi potrà esserne travolto, anche se lì per lì può venirgli la tentazione di compiacersi del marasma esploso fra gli stessi grillini per la rozzezza della sospensione di Pizzarotti, al netto del soccorso improvvisato da Salvini.