Il “vecchietto”, come lo stesso Silvio Berlusconi si è ironicamente autocommiserato, e il “giovanotto”, come Matteo Renzi viene chiamato con un certo dileggio dai suoi critici, si sono sfidati a distanza sul terreno dell’ottimismo.
L’uno, Berlusconi, ha dato a Milano i numeri…. del nuovo governo di centrodestra che immagina dopo le prossime elezioni, composto di 3 ministri di Forza Italia, 3 della Lega, 2 dei Fratelli d’Italia e 12 provenienti dalla “vita vera”, per cui quella degli altri deve ritenersi classificata chissà a quale livello, o di quale natura. E si è pure avventurato ad anticipare una “bozza di programma” che sarebbe stata già concordata, evidentemente fra una lite e l’altra che i tre partiti della presunta coalizione hanno avuto in questi mesi e continuano ad avere: per esempio, nella campagna elettorale a Roma per il Campidoglio.
L’altro, Renzi, altrettanto sicuro di sé, come al solito, ha lanciato dal salotto televisivo di Fabio Fazio, a Rai 3, una raffica di annunci: la legge sulle cosiddette unioni civili approvata entro giovedì in via definitiva alla Camera col ricorso al voto di fiducia; Carlo Calenda in settimana alla guida del ministero dello Sviluppo Economico, dove era vice di Federica Guidi prima di essere mandato a Bruxelles, fra le proteste dei diplomatici, come rappresentante del governo presso l’Unione Europea; la conferma del referendum d’autunno sulla riforma costituzionale come scommessa sulla forza e sulla durata della sua leadership, nonostante le proteste o preoccupazioni per la natura plebiscitaria che assume così l’appuntamento con le urne.
L’unica concessione fatta dal presidente del Consiglio e segretario del Pd ai suoi avversari e critici è stato il riconoscimento dell’esistenza di una “questione morale” nel suo partito, dove ci sono troppi amministratori – circa 50 mila – per non attendersi evidentemente problemi con la giustizia. Ma anche qui egli si è mostrato sicuro di venire prima o dopo a capo della situazione, normalizzando le cose non si sa se più su un versante o sull’altro, degli amministratori o dei magistrati, con l’ottimismo della volontà. Che già Antonio Gramsci, del resto progenitore del suo Pd, soleva contrapporre al pessimismo della ragione.
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Coi tempi che corrono, dopo il clamore provocato fuori e dentro il Consiglio Superiore della Magistratura dal no gridato dal consigliere togato Piergiorgio Morosini alla riforma costituzionale ormai sotto procedura referendaria, ha avuto il sapore di una sfida anche l’altro no affidato dal capo della Procura di Torino, Armando Spataro, ad una lunga e, debbo riconoscere, assai argomentata lettera a Repubblica. Che l’ha diffusa domenica con lo spazio e l’evidenza di un editoriale, o quasi.
Del resto, anche il fondatore del giornale, Eugenio Scalfari, pur avendo aperto a Matteo Renzi su tanti versanti, sia pure sostenendo sia stato più il presidente del Consiglio a convergere su di lui che il contrario, specie sui temi europei, su una cosa gli ha detto sino ad ora no: appunto, sulla riforma costituzionale, sino a preannunciare, in un passaggio di uno dei suoi ultimi interventi domenicali, un conseguente pronunciamento contrario al referendum d’autunno. Si vedrà se il dibattito, destinato a crescere di misura e di tono, gli farà cambiare idea.
La debolezza della lunga offensiva epistolare di Spataro contro la riforma costituzionale targata Renzi, e Maria Elena Boschi, sta tuttavia in un brevissimo post-scriptum, in cui si cita il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, convinto che sia stato scritto “con tecniche da decreto mille proroghe” il nuovo articolo 70 della Costituzione, lungo una pagina contro il solo rigo del vecchio. Che ancora dice: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”.
Sarebbe stato obiettivamente impossibile cavarsela con un altro rigo in più per assegnare diverse competenze legislative alla Camera e al Senato e chiudere l’infausto e paralizzante capitolo del bicameralismo paritario, o perfetto. Eppoi, c’è da chiedersi dove fosse e che cosa avesse detto il buon Zagrebelsky nel 2001, quando la maggioranza di centro sinistra modificò il titolo quinto della Costituzione per dilatare le competenze delle regioni con un articolo – il 117 – lungo tre pagine. Sulle quali peraltro ha dovuto arrovellarsi la Corte Costituzionale per dirimere un’infinità di conflitti arrivati al suo esame.
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Se tutti i grillini fossero non della stoffa imprevedibile dallo stesso Grillo, che ha solidarizzato a sorpresa col sindaco pentastellato di Livorno Filippo Nogarin, indagato con gli amministratori precedenti per bancarotta nella gestione dei rifiuti, ma di quella più solida dimostrata dal primo sindaco italiano delle 5 Stelle, quello di Parma Federico Pizzarotti, non ci sarebbe da temere il successo di qualcuno dei candidati del movimento alle elezioni del 5 giugno, a cominciare dal Campidoglio.
Ma Pizzarotti è un’eccezione nel panorama pentastellato degli amministratori locali. Entrato più volte in collisione con il suo movimento, egli è tuttora deciso a difendere con i denti la sua autonomia, tanto da avvertire in una intervista al Corriere della Sera di non avere alcuna intenzione di seguire i suoi colleghi nella pratica di “chiedere il permesso di esprimere le proprie idee” a Casaleggio: prima Gianroberto e poi il figlio Davide.
Il sindaco di Parma, solidarizzando pure lui col collega di Livorno, diversamente però da Grillo ha strigliato i vari Di Maio e Di Battista, che si sono trattenuti a stento dal reclamare le dimissioni di Nogarin all’arrivo dell’avviso di garanzia, riservandosi comunque di farlo in un secondo momento. E continuando a chiedere il ritiro immediato dagli amministratori degli altri partiti alle prese con i magistrati.
Pizzarotti ha giustamente chiesto agli agitati compagni di partito, o di movimento, di scendere dall’albero della protesta e dell’opposizione pregiudiziale, e di imparare a “sporcarsi le mani” nell’amministrazione della cosa pubblica, senza la pretesa di anticipare le sentenze, lasciando che giudici e avvocati facciano il loro mestiere, nei modi e nei tempi indicati dalla legge. Parola di un grillino anomalo.