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L’antipolitica, Sergio Mattarella e l’ammonimento di Aldo Moro

sergio mattarella, aldo moro

Mi ha impressionato, più che la nuova, ennesima sfida di Renzi alla minoranza del Pd con l’anticipazione del congresso all’indomani della partita referendaria d’autunno, quella foto di Sergio Mattarella, scortato dai suoi corazzieri, davanti alla tomba di Aldo Moro: nel cimitero di Torrita Tiberina, a 38 anni di distanza dalla morte, e nella Giornata dedicata da una legge alla memoria delle vittime del terrorismo. Una tomba la cui porta cancellata di vetro è rimasta chiusa anche davanti al presidente della Repubblica, quasi a riflettere la drammatica e orgogliosa distanza che Moro prese dal suo partito, e dallo Stato, con quella lettera di addio alla moglie Noretta. E di protesta contro quanti, anche gli amici rimasti inermi di fronte ai suoi appelli, non avevano saputo o voluto né proteggerlo prima del sequestro né salvarlo poi dalle mani delle brigate rosse.

“Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta”, scrisse Moro alla consorte. E quasi per ritorsione la porta della sua tomba è poi rimasta chiusa davanti a tutti i visitatori, anche al presidente della Repubblica, dolente e ancora più curvo del solito, come sotto il peso di un rimorso collettivo, incolmabile.

A distanza di 38 anni da quella tragedia, umana e politica, giustizia non è stata ancora fatta, per quanti processi si siano svolti e condanne siano state comminate, peraltro a terroristi che hanno nel frattempo recuperato, se vivi, la libertà. Sono rimasti sconosciuti e impuniti mandanti e complici di quell’operazione troppo grossa e complicata per essere stata ideata e condotta dalla manovalanza poi catturata.

Non a caso su quei fatti sta indagando l’ennesima commissione parlamentare, che sembra questa volta davvero decisa a fare più di quanto non abbiano voluto o potuto quelle che l’hanno preceduta, e i tanti magistrati occupatisi della vicenda.

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Quante volte mi è venuto in mente, come anche ad altri – credo – che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, di chiedermi che cosa Moro direbbe se potesse svegliarsi dal suo sonno e vedere le condizioni alle quali è ridotta la politica. Che fu la ragione di gran parte della sua vita. Ne rimarrebbe forse inorridito e tornerebbe volentieri al suo sonno, sconsolato di vedere quanto bene abbiano saputo imitarlo i suoi successori nello “scomporre”, come lui spesso faceva, e quanto non abbiano invece saputo “ricomporre”, che era sistematicamente l’altra parte della sua opera. Tutto è rimasto scomposto dopo che gli eredi di Moro, o quelli che se ne sentivano tali, hanno smontato la cosiddetta prima Repubblica, e poi anche la seconda, e ancora si agitano per costruirne una terza, e magari smontarla anch’essa.

Sono andato a rileggermi l’ultimo discorso pronunciato da Moro come parlamentare della Repubblica nell’aula di Montecitorio, seguito da un altro intervento soltanto, ma davanti ai soli gruppi parlamentari della Dc per convincere i colleghi di partito, il 28 febbraio 1978, ad accettare la partecipazione piena dei comunisti alla maggioranza con la fiducia, e non più con l’astensione, al governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti.

L’ultimo discorso di Moro in aula alla Camera fu quello del 9 marzo 1977, un anno prima del sequestro e della morte, pronunciato in difesa del suo amico e collega di partito Luigi Gui, ma anche dell’alleato socialdemocratico Mario Tanassi, mandati dopo quel dibattito sotto processo davanti alla Corte Costituzionale, come ex ministri della Difesa, per lo scandalo che prese il nome della Lockeed, la produttrice americana di apparecchi di trasporto militare venduti all’Italia pagando tangenti. Le solite tangenti.

Già allora, 15 anni prima dell’esplosione milanese di Tangentopoli, la politica era poco popolare. Bastava un sospetto o un’accusa, per quanto fossero ancora forti le immunità a protezione dei parlamentari, perché se ne reclamasse sempre e comunque da parte delle opposizioni di turno la condanna “sommaria”, come disse e protestò Moro in quel lungo e ragionatissimo intervento, più volte interrotto, specie dai radicali, dai demoproletari, dal repubblicano e tradizionale alleato della Dc Ugo La Malfa e dai comunisti. Moro chiese “in che misura questo senso di sfiducia” nella politica “non fosse frutto di una esasperata amplificazione, dovuto più alle nostre polemiche che alla sostanza delle cose”. E invitò i partiti rappresentati in Parlamento a “non seguire passivamente l’opinione pubblica” eccitata da una propaganda distruttiva, a “non condannare solo perché lo si desidera”, a “non offrire vittime sacrificali” perché “questo non sarebbe un atto di giustizia, ma pura soddisfazione di un’esigenza politica”.

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Per nulla trattenuto dalle proteste di quanti erano decisi a votare contro Gui e Tanassi – che finirono poi giudicati con sentenza inappellabile per essere il primo assolto dall’accusa di corruzione e l’altro condannato dalla Corte Costituzionale in quello che fu l’unico processo di questo tipo nel Palazzo della Consulta – Moro ammonì: “L’obbedire all’opportunità, benché la politica sia in un certo senso il regno delle opportunità, non paga”. E invece avrebbe pagato negli anni successivi alla sua morte.

Ma quel discorso del 9 marzo 1977 entrò nella storia dell’oratoria politica italiana soprattutto per quel grido opposto a chi aveva reclamato nel dibattito un “processo sulle piazze” contro i democristiani e i loro tradizionali alleati: “Noi – rispose Moro – non ci faremo processare così”. E invece i processi di piazza, quali sono anche quelli mediatici, che precedono e spesso sostituiscono del tutto i processi nei tribunali, sarebbero arrivati dopo la morte dell’allora presidente della Dc. Come sarebbe arrivata anche la fine della stessa Dc, per quanto Moro avesse allora ammonito gli avversari a non “sottovalutarne la grande forza” derivante dal consenso elettorale confermato “da più di tre decenni”.

Moro insomma era ancora vivo e già germogliava l’antipolitica. Che senza di lui sarebbe stata destinata a crescere a dismisura, non so francamente se più a causa degli scandali, che certamente non sono mancati, o dell’uso strumentale che se n’è fatto col giustizialismo, neppure esso mancato.

Non ha torto pertanto il vecchio e saggio Emanuele Macaluso, che ha appena fatto “risalire la crisi del sistema politico italiano” non al crollo del comunismo col muro di Berlino, nel 1989, ma alla “morte di Moro”, nel 1978.

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