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Cosa fa l’Italia in Libia fra Serraj e Haftar

Da Repubblica, attraverso l’inviato Vincenzo Nigro, è arrivata martedì un’altra importante conferma su ciò che tutti ormai sapevano da tempo: ci sono soldati italiani in Libia, e si trovano sia a Misurata che a Bengasi ( di Bengasi per primo ne parlò il Foglio a metà aprile). La questione politica interna alla crisi libica è stata più volte ricordata, perché questo duplice schieramento significa che le forze speciali italiane del Col Moschin, che operano sotto le nuove garanzie funzionali in collaborazione con i servizi segreti esteri (come anticipato mesi fa dal Corriere della Sera), stanno sia con il governo promosso dall’Onu per riunificare il paese e sia con chi gli si oppone con più forza (al governo e alla riunificazione).

STARE CON MISURATA O CON HAFTAR NON È LA STESSA COSA

Gli operatori italiani che stanno cercando di costruire un quadro della situazione politica, militare, paramilitare del paese direttamente dal campo per avere il massimo delle informazioni possibili se dovesse configurarsi la necessità di un intervento più ampio – attualmente scongiurato da tutti, dopo mesi scalpitanti – a Misurata si trovano con ogni probabilità insieme agli inglesi in una base poco fuori città, a Bengasi condividono con francesi, americani (come rivelato pochi giorni dal Washington Post) un’ala riservata e protetta dell’aeroporto di Benina (le immagini del compound erano state fornite da Stratfor qualche settimana fa). Misurata, città natale del premier libico designato dall’Onu Fayez Serraj, è il principale dei poteri che sorregge i progressi politici di Tripoli, mentre Bengasi è la capitale in pectore della Cirenaica sognata dai federalisti, comandanti militarmente e politicamente da Khalifa Haftar, sotto la spinta egiziana. L’Egitto, stando ai fatti, è la nazione esterna che ha più peso sulla situazione in Libia, poi vengono gli occidentali, che per lavorare al minimo del coinvolgimento per ottenere il massimo dei risultati, aumentano il caos tra chi sponsorizzano apertamente e chi dietro le quinte.

LA CONFUSIONE OCCIDENTALE

Il dispiegamento degli incursori italiani su entrambi i lati non è soltanto una necessità pragmatica del governo Renzi di schierarsi da tutte e due le parti, nata sotto due perché: primo, sebbene si sia scelto di scommettere su Serraj con tutte le forze (formali) politico-diplomatiche, non ci si fida fino in fondo dell’effettive capacità del Gna, il governo di unità nazionale che il premier designato dovrebbe guidare “qui a breve” (con quel “a breve” che dura da mesi); e secondo, e perché si ritiene che per combattere lo Stato islamico, “la minaccia libica”, non si può prescindere dal ruolo di Haftar ad oriente. No, c’è di più, e lo spiega una fonte “governativa italiana” a Repubblica: “È  importante capire cosa fanno tutte le forze militari straniere presenti in Libia, sia per preparare eventuali azioni contro lo Stato Islamico, ma anche per capire quali sono le dinamiche, le alleanze fra milizie libiche e i loro vari sponsor stranieri”. Ossia, in Libia le forze speciali italiane hanno anche il compito di controllare quelle degli altri Paesi occidentali, ed è del tutto possibile che le linee dalle altre cancellerie impegnate siano le stesse. Roma invia i suoi soldati speciali in Libia per controllare Parigi, che per compiacere il Cairo, partner strategico ed economico, cerca di muoversi verso Bengasi di anticipo su Washington, che però è già lì, con l’avallo di Londra. Un quadro complesso, che marginalizza il fattore locale, e che accentra sulla Libia interessi globali, legati al petrolio e alle risorse, al ruolo strategico del paese nel Mediterraneo, alla necessità conseguente di controllarsi a vicenda, e dipinge la realtà frammentata con cui i Paesi occidentali, formalmente alleati tra loro, corpaccione stretto ai tavoli negoziali come l’ultimo a Vienna, affrontano le crisi seguendo agende personali legate anche agli interessi dei rispettivi partner. In Libia come in Siria, per esempio. Memoria storica, da esempio: sempre martedì, sulla Stampa il procuratore capo di Trieste Carlo Mastelloni raccontava dei contatti diplomatici tra Aldo Moro e il rais Gheddafi negli anni Settanta, attraverso i quali l’Italia si impegnò a non rovesciare il regime libico.

RENZI: NO INTERVENTO MILITARE, AZIONE DIPLOMATICA

Ancora martedì, intervenendo ad un videoforum su Repubblica Tv il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi ha parlato anche di Libia. Ha detto che “la storia dei 5mila soldati è una notizia giornalistica che spero sia stata finalmente archiviata” (era stata messa in circolazione mesi fa dopo un’intervista al Messaggero del ministro della Difesa Roberta Pinottindr). “Noi non interveniamo con il nostro esercito a meno di una richiesta generale e con la condivisione di Serraj – ha aggiunto Renzi – ma lavoriamo a livello diplomatico per dare una mano perché Serraj possa dare stabilità alla Libia”. Il premier ha concluso che “in ogni caso la questione dell’invio delle truppe passa dal Parlamento”. Invece la decisione politica per le missioni congiunte di intelligence e forze speciali come quella in corso in Libia, secondo le nuove regole delineate dalla riforma operativa redatta dal sottosegretario con delega ai Servizi Marco Minniti, viene presa dal Ciis, il Comitato interministeriale per la sicurezza, che è presieduto dal capo del governo e in cui sono presenti i ministeri di Interni, Esteri, Difesa, Giustizia ed Economia. Ed è dunque una linea politica del governo.


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