Oggi, lunedì 16 maggio, a Vienna si tiene un vertice internazionale sulla Libia che potrebbe aprire nuovi scenari per la soluzione delle crisi politica e iniziare la strada per combattere lo Stato islamico, che ha approfittato del caos creato dallo scontro tra fazione orientali e occidentali per insediarsi nel Paese e creare una roccaforte a Sirte.
FORMATO ROMA
Saranno il segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, promotori del vertice, a presiedere i lavori ai quali parteciperanno i Paesi del cosiddetto “formato di Roma”, in virtù dei presenti ad una riunione già svoltasi nella capitale italiana a dicembre scorso (ossia i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, alcuni Paesi europei e della regione, Organizzazioni Internazionali), allargata stavolta a Malta, Ciad, Niger e Sudan; queste nazioni africane sono in prima linea nella lotta allo Stato islamico, che tesse collegamenti dalla Libia alla Nigeria. Dal punto di vista diplomatico, l’aspetto più interessante sta nel raccogliere le posizioni di paesi come Cina e Russia, apertamente disimpegnati, ma spesso scettici, sulla situazione in Libia (la Russia, per esempio, non è molto favorevole al sollevamento dell’embargo Onu sulle armi, di cui si dovrebbe discutere a Vienna, e Mosca ha diritto di veto in sede di CdS).
STABILIZZARE IL PAESE
“La stabilizzazione è un obiettivo primario per l’Italia”, spiega una nota della Farnesina, cha a quanto pare potrebbe chiudersi con un invito al premier designato dal processo politico Onu, Fayez Serraj, a iniziare l’azione dell’esecutivo anche senza l’avallo politico del Parlamento in esilio a Tobruk (step concordato nell’accordo che ha dato il via all’intero processo, siglato il 17 dicembre scorso in Marocco). Onu, Stati Uniti e Paesi europei vorrebbero forzare la mano sfruttando il fatto che una maggioranza politica si è già espressa in favore di Serraj (in una riunione avvenuta a Ghadames, vicino al confine tunisino), anche se il presidente dell’assise HoR Agila Saleh s’è rifiutato di riconoscere il voto, continuando sulla linea di ostruzionismo portata avanti finora utilizzando anche la sponda favorevole di Egitto ed Emirati Arabi. Una forzatura simile aveva avuto già buon esito quando si è trattato di insediare a Tripoli il premier e il Consiglio presidenziale da lui guidato, che aveva raccolto il definitivo sostegno dei maggiori gruppi di potere dell’ovest libico proprio dopo aver preso potere dalla base di Abusetta, nella capitale. In questo momento si pensa alla possibilità di legittimare Serraj alla guida di un governo leggero, di emergenza, dal ristretto numero di ministri, posizionati nei posti chiave (sicurezza, emergenza migranti, rapporti internazionali, industria energetica) per iniziare una ripresa.
CON TRIPOLI, SENZA PERDERE CONTATTI IN CIRENAICA
Contrari a questa forzatura i cirenaici, appoggiati dagli egiziani. A questo proposito è interessante notare come il presidente del parlamento Saleh sabato sia stato messo sotto sanzioni anche dagli Stati Uniti (dopo che già l’UE l’aveva fatto), mentre sul suo specchio operativo, il generale Khalifa Haftar, che muove le forze combattenti della Cirenaica, iniziano a mostrarsi i primi ammorbidimenti. Intervista da Sky Tg24, il ministro della Difesa italiana Roberta Pinotti ha definito la situazioni di Serraj “molto fragile” e ha auspicato un ruolo di Haftar nella lotta allo Stato islamico, posizione già nei giorni scorsi assunta da Gentiloni. Dal campo, d’altronde arrivano informazioni sul superamento del vecchio schema diplomatico (tutti con Serraj, Haftar è un ostacolo). Funzionari americani hanno ammesso, di nuovo tre giorni fa, che due piccoli team di contatto delle forze speciali, ossia operatori che stanno raccogliendo informazioni e tessendo rapporti, si trovano sia con i miliziani di Misurata, i più forti tra i fedeli al governo Onu, sia con Haftar a Bengasi (le due fazioni libiche sono nemiche acerrime). A testimonianza che lo stretto coordinamento italo-americano sulla crisi libica non riguarda solo i piani diplomatici, il Foglio due giorni fa raccontava in un articolo di Daniele Raineri, inviato in Libia, che lo stesso schema bifronte era seguito anche da un piccolo contingente inviato da Roma (composto da uomini del Col Moschin e da agenti dell’Aise). Per gli occidentali, che creano tavoli di confronti con cui intendono rafforzare la presidenza di Serraj, non vanno persi contatti locali con nessuna delle fazioni più importanti; a febbraio il Monde e la Reuters avevano raccolto informazioni sulla presenta, sempre a Bengasi, di soldati francesi, e pochi giorni dopo i media inglesi avevano parlato di militari inviati dalla Regina a Misurata. Se si dovesse creare un comando unificato per combattere l’Is, Haftar potrebbe avere ruoli di comando all’est, ma dovrà accettare di essere inserito in una struttura dove il Commander in chief è Serraj.
IL TANTO DISCUSSO INTERVENTO MILITARE OCCIDENTALE
Più delicato il piano per un intervento militare occidentale più ampio. Oggi Fiorenza Sarzanini firma sul Corriere della Sera un articolo in cui annuncia che il contingente militare che dovrà garantire sicurezza alla sede Onu in Libia arriverà dal Nepal, perché l’Italia ritiene ancora troppo rischioso l’invio di soldati (da notare che i soldati sono i militari con compiti normali, gli operatori sono coloro che appartengono alle unità che compiono operazioni speciali e seguono altri protocolli e altre dinamiche). “Troppo alti sono i rischi, troppo forte il pericolo che i reparti stranieri diventino bersagli di attacchi”, sono queste, secondo il Corsera, le valutazioni dei generali riportate al presidente del Consiglio alla vigilia della firma (prevista in settimana) del “decreto-missioni”; in piedi resta comunque la possibilità di usare le forze speciali, come indicato da un altro decreto firmato un paio di mesi fa da Matteo Renzi. In un op-ed pubblicato domenica sul Telegraph, Serraj ha ribadito di non richiedere un intervento militare dall’estero, ma di aver bisogno di aiuto e assistenza, ossia armi e addestramento.
Ma il Corsera dice che “per quanto riguarda gli altri compiti di vigilanza e addestramento la scelta è quella di prendere tempo”, sebbene pochi giorni fa Marco Galluzzo, che segue Palazzo Chigi sempre per il Corriere della Sera, scriveva in un altro articolo che la missione internazionale a guida italiana era più o meno pronta, concordata con l’Onu, e forniva anche, attraverso fonti interne al governo, il numero (900) dei soldati che Roma avrebbe inviato. Intanto Serraj nei giorni scorsi ha istituito la Guardia presidenziale, un corpo da diecimila uomini che potrebbe essere un prodromo delle future forze armate, e su cui si giocano i tre aspetti centrali in questo momento: il ruolo di Haftar, l’abolizione dell’embargo sulle armi e l’appoggio dall’estero.