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Le lobby, l’Italia, l’Europa e l’America. Parla Craig Holman

Lunedì 9 maggio l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, John Phillips, e Craig Holman, il lobbista di Public Citizen – organizzazione non profit che preme per la trasparenza – si sono dati appuntamento al Centro Studi Americani. Scopo dell’incontro? Discutere del ruolo del denaro in politica. Un tema attuale sia negli Stati Uniti, nel bel mezzo della campagna elettorale presidenziale “più costosa, più oscura e più ingarbugliata” di sempre – parole dello stesso Holman – sia in Italia, dove le modalità di finanziamento ai partiti hanno sempre fatto dibattere.

CHI È HOLMAN

Holman è un lobbista che fa lobby per regolare l’influenza delle lobby, molto ascoltato dal presidente Barack Obama. Arrivato alla Casa Bianca, Obama ha infatti trasformato il progetto di Holman in un ordine esecutivo: tutti i membri devono astenersi da decisioni su temi e settori che toccano la loro professione precedente e chi torna poi nel privato non può fare lobbying sull’Amministrazione. “Risultato: zero scandali”, ha scritto oggi il vicedirettore del Fatto Quotidiano, Stefano Feltri.

LA SCARSA REGOLAMENTAZIONE IN EUROPA

In una conversazione con Formiche.net, Holman ha parlato tra l’altro delle lobby in Europa. Secondo il lobbista di Public Citizen, gli ostacoli con cui il Vecchio Continente si ritrova a fare i conti hanno a che fare con il suo passato: “Negli anni ’50, i registri per le lobby, laddove questi erano previsti” – ad esempio in Germania – “non erano disegnati e concepiti come degli strumenti per combattere la corruzione, quanto per facilitarla. Fornendo alle lobby quelli che io chiamo hall passes” – dei veri lasciapassare, piuttosto che dei registri atti a garantire un maggior grado di trasparenza – “i lobbisti avevano accesso indiscriminato ai lawmakers. Questo era il modello adottato, un tempo, nei Paesi europei dotati di un qualche sistema di registrazione delle lobby”.

Oggi, secondo l’European Traparency Initiative, l’Unione prevede un sistema di registrazione su mera base volontaria. Sebbene questo possa essere considerato un traguardo importante, perché espressione di una scelta comunitaria, e “l’unificazione dell’Europa passa anche attraverso un regime comune in materia di lobby” – ha detto Holman – questo non è abbastanza. “A prescindere da quello che accade in Europa a livello comunitario, ciascuno Stato membro dovrebbe adottare una propria legislazione in materia di regolamentazione delle lobby”, ha aggiunto l’esperto.

L’Europa ha tentato di promuovere un sistema di regolamentazione delle lobby per garantire un maggior grado di trasparenza. Come ha spiegato Holman, “il membro estone della Commissione europea, Siim Kallas, credeva profondamente nella necessità di implementare un sistema di registrazione obbligatorio; non a caso fu proprio questa la soluzione che egli offrì inizialmente. Dopo qualche anno, però, a causa del continuo ostruzionismo, praticato tanto dalla Commissione, quanto dai lobbisti stessi, Kallas abbandonò il suo progetto”. E il fatto che fossero gli stessi lobbisti a opporsi alla volontà di conferire maggiore trasparenza al sistema di regolamentazione europeo ha colpito Holman.

L’INFLUENZA DELL’AIPAC

E in America che cosa succede? Holman ha fornito un esempio, tratto direttamente dalla sua esperienza sul campo, per dimostrare quanto l’Aipac – la principale lobby americana filo-israeliana – e la conferenza annuale che questa organizza – (qui l’articolo di Formiche.net), siano influenti nell’elezione del Presidente degli Stati Uniti.

“Lavorando con il Presidente Obama alla lobby reform legislation del 2007 […] si discuteva del fatto che le lobby dovessero essere sottoposte a delle restrizioni, laddove si trattava di pagare le spese di viaggio dei membri del Congresso per garantirne la presenza agli eventi organizzati dalla lobby in questione. Più precisamente, tutto quelle che lobby potevano fare era pagare le spese di viaggio perché il membro si recasse alla conferenza organizzata dalla lobby di turno e l’indomani tornasse a casa”. Dal momento che l’Aipac era solita organizzare, ogni anno, per i membri del Congresso, dei viaggi in Israele di circa due settimane, vien da sé che la lobby si oppose alla proposta. “L’AIPAC ha aggirato l’ostacolo creando un’organizzazione no-profit, che di fatto né esiste né assume impiegati, con il solo fine di finanziare i viaggi in Israele dei membri del Congresso, così che i soldi spesi a tal fine non possano essere ricondotti direttamente alla potente lobby”.

L’ITALIA NON SEGUA GLI STATI UNITI

In un incontro con il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, commentando il cambiamento che l’Italia si appresta ad attuare, in materia di finanziamento ai partiti, il segretario di Stato John Kerry aveva commentato: “Attenti a questa legge o perderete la vostra democrazia. Questo modello è tremendo”, ha ricordato l’ambasciatore Phillips durante la discussione.

Che il sistema di finanziamento ai partiti, attualmente vigente negli Stati Uniti, piaccia poco sia a John Phillips che a Craig Holman è emerso con chiarezza. Non tanto per il fatto che le aziende possano partecipare attivamente alla politica, finanziando il partito, e dunque il candidato, che reputano più vicino alla propria forma mentis – o meglio, ai propri interessi – quanto perché questo ha dato origine al fenomeno dei cosiddetti “dark money”, ha spiegato Holman. Secondo questo sistema, cioè, “conosciamo a quanto ammonta la spesa, ma non ne conosciamo la provenienza”, ha commentato il lobbista. Ancora più sconvolgente, poi, è che tale denaro provenga “solo dallo 0.25 per cento dei cittadini americani, per lo più uomini bianchi, anziani e facoltosi”, ha proseguito Holman.

Se da un lato l’Italia ha promosso un cambiamento, che per certi versi ricorda il sistema americano, con il preciso scopo di ridurre l’ammontare di denaro pubblico speso in politica, dall’altro è necessario che il nostro Paese vagli con attenzione pro e contro del nuovo sistema. Secondo Holman, infatti, “ad aver alimentato la corruzione in Italia, non è stata tanto la provenienza del denaro, quanto la sua cattiva gestione”.

Un altro elemento che l’Italia dovrebbe tenere in conto prima di compiere un passo così importante – o meglio che avrebbe dovuto, perché oramai il decreto legge 28 dicembre 2013 è stata approvato – riguarda la mancanza di una legge che regolamenti il sistema delle lobby. Se gli Stati Uniti, in cui una simile legislazione è presente, il sistema di finanziamento ai partiti da parte dai provati ha prodotto il fenomeno dei “dark money”, figuriamoci cosa potrebbe accadere in Italia. Secondo Holman, “una tale combinazione potrebbe essere un vero problema […] poiché permetterebbe alle lobby di lavorare ancora di più nell’ombra e accrescere ulteriormente la loro influenza. L’unico attenuante sarebbe garantire maggior margine di trasparenza e promuovere un buon sistema di finanziamento pubblico dei partiti che funzioni”.

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