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Monte dei Paschi di Siena, Intesa Sanpaolo, Unicredit. Cosa si farà dopo il fondo Atlante

Antonio Patuelli
Il fondo Atlante che ha da poco messo in sicurezza l’aumento di capitale della Banca Popolare di Vicenza, diventandone praticamente unico azionista, potrebbe essere solo l’inizio, o comunque la parte più eclatante, di tutta una serie di operazioni “di sistema” tese a reperire risorse per sostenere il tanto tribolato sistema del credito italiano. Molti indizi depongono a favore di questa tesi, anche se il 6 maggio, nella conferenza sui risultati trimestrali, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, ha fatto sapere di ritenere che non saranno creati altri fondi Atlante. “Penso che Atlante sia un fondo “one off”, non vedo la possibilità di creare un Atlante 2, un Atlante 3 o un Atlante 4″, ha dichiarato Messina. Forse la sua è solo una speranza visto che l’istituto di Ca’ de Sass ha dovuto staccare un assegno di ben 845 milioni di euro per finanziare l’operazione.
PRIVATE EQUITY A VICENZA
A prescindere dalla creazione di un Atlante 2 o 3, però, qualcuno sussurra che il fondo gestito dalla Quaestio presieduta da Alessandro Penati, così com’è oggi, potrebbe in qualche modo rafforzarsi. O meglio: cercare degli alleati per gestire il nodo della Popolare di Vicenza. In un articolo pubblicato sul Sole 24 ore del 5 maggio, Carlo Festa ha scritto che l’obiettivo di Atlante potrebbe essere quello di “cedere una quota della banca stessa a un private equity con esperienza nel settore della ristrutturazione degli istituti di credito”. Secondo il quotidiano di Confindustria, si parlerebbe di discussioni preliminari con cinque soggetti, tra cui il private equity Investindustrial di Andrea Bonomi, già socio in passato della Popolare di Milano nonché interessato a Carige. Gli altri nomi che circolano sono quelli di Warburg Pincus, di Atlas, di Centerbridge e di Baupost, fondi di private equity meno noti sul mercato italiano.
CHE VUOL FARE L’ABI
Chi la pensa in modo diverso dal numero uno di Intesa Messina è il presidente dell’Abi (Associazione bancaria italiana), Antonio Patuelli, che nei giorni scorsi ha dichiarato al Sole 24 ore: “Io credo che se il fondo Atlante non potrà fare tutto da solo, sarà necessario trasformare un altro fondo volontario in fondo di partecipazione, che intervenga a prevenire le conseguenze dei dissesti”. Secondo indiscrezioni, in particolare, tra gli obiettivi dell’Abi ci sarebbe proprio quello di veder nascere un altro fondo volontario sull’esempio di Atlante, di tipo volontario e da innestare su quello nato pochi mesi fa di fianco al fondo obbligatorio dell’Fitd, il Fondo interbancario di tutela dei depositi.
IL FONDO “FRATELLO” DEL FITD
Come riporta Francesco Ninfole del 6 maggio, il presidente del Fitd Salvatore Maccarone, in un seminario Abi, ha dichiarato: “Stiamo studiando l’irrobustimento dello schema volontario per interventi preventivi oggi non più possibili. Lo schema volontario oggi ha una dotazione modesta; stiamo cercando di aumentarla compatibilmente con le esigenze del momento”. Secondo Mf, “non è stato ancora deciso quale sarà la nuova soglia. Sono in corso valutazioni anche con le autorità sulle potenziali necessità di breve-medio termine. Come Atlante – scrive Ninfole – anche il fondo volontario servirebbe a scongiurare la risoluzione di banche. Ma i due strumenti sono diversi. Atlante è nato per esigenze specifiche (le due banche venete) e ha anche l’obiettivo di comprare sofferenze e mira a un rendimento. Invece lo schema volontario, come in precedenza il Fitd, opera con la logica di salvare istituti (presumibilmente non di grandi dimensioni) e non ha finalità remunerative, anche se nel tempo potrebbe contare sul recupero di valore delle partecipazioni acquisite”.
IL RITORNO DELLA SGA
A complicare ulteriormente la situazione, c’è il ritorno in scena della Sga, la “bad bank” nata nel 1997 per gestire uno dei crac più noti della storia finanziaria italiana, quella del Banco di Napoli. Ebbene, la Sga è ricomparsa come per magia nel decreto da poco diventato legge sugli indennizzi agli obbligazionisti delle ex banche Etruria, Marche, Carichieti e Cariferrara. Recita l’articolo 7 del decreto: “Le azioni rappresentative dell’intero capitale sociale della Società per la gestione di attività (Sga) sono trasferite al ministero dell’Economia. A fronte del suo trasferimento, sarà riconosciuto un corrispettivo non superiore a seicentomila euro pari al valore nominale delle azioni”. Commenta su La Stampa Alessandro Barbera: “Chi l’avrebbe mai detto: a vent’anni dalla liquidazione per trentadue milioni di euro a Ina e Bnl, il Banco di Napoli ne frutta al Tesoro seicento che potrebbero essere utilizzati per salvare altre banche”.
Chi è che vende lo spiega Reuters: “Il decreto sul recupero crediti approvato dal governo prevede all’articolo 7 che le azioni della Sga siano trasferite da Intesa Sanpaolo, entrata in Banco Napoli con la fusione con Sanpaolo Imi, per un corrispettivo non superiore a 600.000 euro al ministero delle Finanze”. “Non si tratta di una vendita, bensì della restituzione di quote sulle quali il Tesoro faceva utili ed esercitava i diritti dell’azionista”, ha spiegato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Secondo i calcoli della Reuters, alla fine del 2014, la Sga aveva in cassa 484 milioni di euro, più altri 238 milioni di crediti. Ora che farà il governo di questo tesoretto? Padoan frena (“non abbiamo ancora preso decisioni”), ma lo stesso articolo 7 del decreto fa sapere: “La Sga può acquistare sul mercato crediti, partecipazioni e altre attività finanziarie”. Quindi una sorta di Atlante 2? Può essere ma in tutti questi casi, compreso quindi anche il fondo volontario imparentato col Fitd, una cosa è certa: bisognerà evitare che l’Europa bolli le operazioni come “aiuti di Stato”. Altrimenti salterà tutto, come già successo in passato.
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