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Quanto sono attapirati Salvini e Meloni per la sconfitta risicata di Hofer in Austria?

matteo salvini, napoli Lega

Quei trentamila voti arrivati per posta a Vienna ci hanno risparmiato in Italia le grida di entusiasmo del segretario leghista Matteo Salvini, aspirante alla guida di un nuovo centrodestra italiano. Gli è rovinosamente mancata l’affermazione, che già pregustava, del destrissimo candidato alla presidenza della Repubblica austriaca, assegnata invece ad un ambientalista che da solo non ce l’avrebbe mai fatta se non fosse stato naturalmente sostenuto da tutti gli altri sconfitti nel primo turno: moderati di destra, di centro e di sinistra, accorsi alle urne con oltre il 70 per cento dell’affluenza per scongiurare il peggio.

Lesto nel cogliere l’occasione, il direttore del giornale della famiglia Berlusconi, pur facendo a Salvini e alla sua beniamina sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, la cortesia di non confonderli con l’estrema destra austriaca, li ha ammoniti a togliersi dalla testa l’idea di poter mai vincere una campagna elettorale in Italia sottraendosi all’alleanza, ma soprattutto alla leadership almeno virtuale dell’ex presidente del Consiglio. Che per residui impedimenti giudiziari ma soprattutto per ragioni anagrafiche difficilmente potrà però ricandidarsi direttamente a Palazzo Chigi o dintorni.

In verità, il direttore del Giornale Alessandro Sallusti ha evitato di ricordare questa circostanza, o inconveniente. Egli ha invece ricordato, e rinfacciato, alla coppia Salvini-Meloni l’avventura romana, consistente appunto nella pretesa di vincere la partita capitolina del 5 giugno, e del 19 se mai la Meloni arriverà al ballottaggio con la grillina Virginia Raggi al posto di Roberto Giachetti o di Alfio Marchini, senza l’appoggio dell’ex Cavaliere. Che pur con tutti i suoi inconvenienti, d’età o d’altro, specie se collegato con i suoi ex alleati di centro, riesce ancora a muovere, o a fermare, secondo i gusti o le circostanze, un bel gruzzolo di voti.

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Sull’altro fronte elettorale, quello del referendum d’autunno sulla riforma costituzionale, che ha finito per appannare il rinnovo imminente di tante e importanti amministrazioni comunali, come il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana ha un po’ rimproverato a Matteo Renzi, procede l’arruolamento dei professori o esperti. Il presidente del Consiglio, e segretario del Pd, è riuscito ad opporne ben 184, probabilmente destinati a crescere ancora, ai 56 schieratisi per il no con l’autorevolezza, o la prosopopea, secondo i casi, di tanti illustri pensionati, fra i quali una decina di ex presidenti, o presidenti emeriti della Corte Costituzionale: tutti convinti che la riforma targata Renzi e Boschi snaturi gli equilibri di quella che, secondo loro, rimarrebbe la Costituzione più bella del mondo, approvata alla fine del 1947 e in vigore dal 1948.

Questa storia della Costituzione violata, o violentata, ha finito per far saltare la mosca al naso del già inquieto presidente emerito, pure lui, della Repubblica Giorgio Napolitano. Che, dopo avere prima incoraggiato dal Quirinale e poi sostenuto da senatore a vita il percorso parlamentare della riforma, è sbottato dichiarandosi “profondamente offeso” – sì, offeso – da quello che si sta scrivendo e dicendo contro le modifiche approvate dalle Camere con la maggioranza inferiore ai due terzi, per cui sarà necessaria la verifica referendaria.

Per quanto imperfette come tutte le cose umane, e quindi perfettibili con successivi interventi, alla luce di ciò che saranno capaci di produrre, quelle modifiche restano per Napolitano l’ultima occasione utile per dimostrare la capacità del sistema istituzionale di innovarsi nei fatti, e non solo nelle parole. In effetti, continuare a scartare il bene per inseguire il meglio, come d’altronde lo stesso Napolitano e i suoi amici e compagni fecero nel 2006 contro la riforma varata in Parlamento dalla maggioranza di centrodestra, non è un grande esercizio di saggezza e di realismo.

Non è un esercizio di realismo neppure quello in cui si stanno esercitando gli avversari e critici di Renzi, nel Pd, gridando contro la “spaccatura del Paese in due” con il sì e il no alla riforma costituzionale. Ogni referendum, abrogativo o confermativo che sia, divide il Paese, o lo spacca, come preferiscono dire lor signori. Non ha alcun senso lamentarsene, a meno che a qualcuno non venga in mente l’insana idea di proporre un’ulteriore riforma per eliminare il referendum.

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L’ultimo “scandalo”, sempre a proposito del referendum d’autunno per il quale tanto si sta mobilitando il presidente del Consiglio, lo ha scoperto e gridato il solito Fatto Quotidiano avvertendo che i comitati per il sì avranno diritto ad un finanziamento pubblico complessivo, credo, di 500 mila euro. Che non sono certamente pochi, per carità. Ma ne avranno diritto anche i comitati referendari per il no, cari naturalmente al giornale diretto da Marco Travaglio, ai 56 giuristi scesi per primi nell’arena dei professori, e a quella compagnia troppo variopinta e contraddittoria con la quale Il Foglio rimprovera quasi quotidianamente a Berlusconi di essersi voluto mescolare.

Travaglio è riuscito tuttavia a trovare una differenza fra i 500 mila euro destinati ai comitati del sì e quelli destinati ai comitati del no. I primi saranno tutti spesi e dilapidati. Degli altri, saranno restituiti allo Stato quelli non spesi. Come faccia a saperlo, francamente, non so. Ma lo sa lui, e tanto basta.

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