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Perché Renzi non è né De Gasperi né De Gaulle

Il pasticcio in cui si sta cacciando Matteo Renzi sulle questioni della giustizia non deriva da un complotto ma non nasce dal caso. E’ frutto diretto e quasi inevitabile dell’approccio generale che il presidente del Consiglio ha in generale sulle questioni politiche e in particolare su quelle istituzionali: un mix di arroganza, improvvisazione e d’inarrestabile propagandismo.

Ora un po’ di arroganza (decisionismo?) è talvolta utile, un po’ d’improvvisazione (tempestività?) è in qualche caso indispensabile e l’attenzione alla propaganda (rapporti con la società?) fa parte delle esigenze della politica. Ma, come spiegava già bene Aristotele, il problema è sempre la misura nelle scelte.

L’idea di un super pm che si occupasse con poteri eccezionali di prevenzione della corruzione come Raffaele Cantone è nella sostanza corretta ma andava inquadrata sistemicamente: sia rispetto alle istituzioni della sovranità popolare che sono trattate quasi come un fastidio, ma in questo caso la disgregazione è tale che non vi sono vere reazioni. Sia nei confronti della corporazione dei magistrati che, se si vede selezionare un suo membro a cui si delegano poteri eccezionali, lasciando tutto il resto immutato, non può che imbizzarrirsi e arrivare persino a scegliersi come “guida” un tipetto come Piercamillo Davigo.

Altrettanto scellerata (e foriera di disastri) mi pare l’attitudine rispetto alla situazione della giustizia nel Sud (una delle principali questioni nazionali). Premetto che ho trovato assai poco convincente il trattamento giudiziario riservato a Totò Cuffaro, che peraltro con il massimo della dignità si è scontato cinque anni di galera, considero però ancora più sconcertante l’atteggiamento di certi cosiddetti “democratici”: se si ritiene pienamente giustificata l’accusa di fiancheggiamento della mafia da parte dell’ex presidente della Regione Sicilia, reclutarne poi i principali seguaci per consolidare il proprio potere, mi pare particolarmente, al di là dei giudizi estetici e morali, disgregatore.

La principale via per il disastro, come dimostrano bene gli incidenti dei moralisti antimafia, a partire da quelli confindustriali, è confondere etica, politica e legalità trasformando per esempio la superiorità morale in base privilegiata per i propri business. E questa “via” fa il paio con l’atteggiamento di politici che agiscono come il Riccardo III di Shakespeare: prima ammazzano il rivale politico poi costringono la moglie a sposarsi l’assassino del marito.

Negli stessi termini ci si comporta in Campania nei confronti di un Nicola Cosentino che è ormai da nove mesi agli arresti senza alcuna sentenza definitiva. Anche nel caso del politico casertano le accuse mi paiono largamente confuse, e comunque appare incredibile che si possa avvallare (anche in Parlamento) una campagna criminalizzante contro un politico e poi cooptarne tanti dei principali “quadri”, tra l’altro base rilevante del consenso di Denis Verdini.

Chi compie mosse tattiche di questo tipo si considera senza dubbio furbissimo: consolida il proprio dominio sul Parlamento, si costruisce una base per distribuire le mancette necessarie per vincere i vari referendum ed elezioni, occupa tutto il potere economico o mediatico possibile, si prepara un modello di Costituzione – ad occhio più adatto a governare sull’Etruria che sull’Italia – che conta di far passare grazie a ricatti (o io o il caos) e complicità internazionali (ben interessate a trasformare l’Italia da grande potenza economica, in un Paese di camerieri: termine usato senza naturalmente alcuna volontà di offesa verso la specifica nobilissima categoria di lavoratori).

Però i furbissimi non si rendono conto che un potere senza reale legittimità può prevalere su opposizioni disgregate o guidate da un pagliaccio, ma non può domare chi è dotato di formidabili strumenti repressivi ormai privi di ogni concreto contrappeso e ancora meno può competere con strutturati sistemi di influenza internazionali: tutte “potenze” che solo istituzioni fondate realmente sulla sovranità popolare possono civilmente limitare.

Chi governa grazie alla disgregazione, grazie alla disgregazione può finire da un momento all’altro macinato se si scontra con chi è più forte di lui, avendo di fatto rinunciato all’unico scudo efficace in una democrazia quello di una vera legittimità democratica.

Non credo che Renzi possa recuperare i guasti che ha determinato grazie alla sua arroganza, improvvisazione e propagandismo, non è in grado di diventare né un De Gasperi che ricuce posizioni diverse (le distanze tra dc e comunisti erano superiori persino a quelle tra travaglianti e berlusconiani) né un De Gaulle (i Chaban-Delmas, i Debré, i Malraux appaiono di un livello un po’ diverso da quello delle Boschi, dei Guerini e dei Verdini). In questo senso non so proprio se potremo salvarci dal destino da “camerieri” che immaginano per noi a Berlino (mentre Londra e Parigi ci scippano nel frattempo le nostre aree di influenza in Libia) o da sudditi di quella sorta di Comitato di salute pubblica permanente che ci preparano certi magistrati. Non so. Però varrebbe la pena che le persone di buona volontà ci riflettessero su.



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