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Perché sostengo la riforma costituzionale. L’analisi del prof. Lippolis

C’è un mezzo sicuro per delegittimare le istituzioni repubblicane: continuare a parlare di riforme della Costituzione senza realizzarle. È quello che la politica ha fatto dal 1978 ad oggi, salvo la parentesi dannosamente creativa della riforma delle regioni del 2001, quando il disegno costituzionale è stato sfregiato sull’onda di uno pseudofederalismo velleitario e inconsistente. Dopo tanti anni ci troviamo di fronte a un progetto che, pur con limiti evidenti e qualche incongruenza, affronta e risolve problemi importanti del nostro assetto istituzionale. Ha ragione il presidente Giorgio Napolitano quando afferma che se si affossa anche questo sforzo di revisione costituzionale l’Italia apparirà come una democrazia incapace di riformare il proprio ordinamento e mettersi al passo con i tempi.

Gli obiettivi principali della riforma sono due ed entrambi pienamente condivisibili: il superamento del bicameralismo paritario e il riequilibrio del rapporto Stato – regioni ed locali.

Per il primo aspetto, è utile ricordare che il bicameralismo nell’esperienza costituzionale contemporanea trova giustificazione nella rappresentanza nella seconda camera degli enti territoriali che compongono lo Stato e, nei regimi parlamentari, ovunque si struttura con una differenziazione di competenze e una relativa prevalenza della camera di diretta espressione del corpo elettorale. In particolare, è solo quest’ultima ad essere titolare del rapporto di fiducia con il governo. In sostanza, tutti i sistemi di governo parlamentare si caratterizzano per un parlamentarismo asimmetrico. E questo fa la riforma in esame, istituendo un Senato nel quale potranno trovare espressione le istanze delle regioni e degli enti locali. Un Senato, peraltro, non privo di competenze significative (anzi per certi aspetti troppo estese) come la partecipazione piena al potere di revisione costituzionale, il rapporto con l’Unione Europea, la valutazione delle politiche pubbliche, l’elezione di due giudici costituzionali. Per altro verso, la conduzione governativa dell’indirizzo politico sarà facilitata non solo dall’esclusione del Senato dal rapporto fiduciario, ma anche dall’introduzione di un meccanismo di approvazione a data certa delle leggi di attuazione al programma di governo. E’ opportuno entrare nell’ordine di idee che la riforma non riguarda solo il Senato, ma è una riforma dell’intero Parlamento.

Si rimane comunque nell’ambito di un regime parlamentare, anche perché non vengono toccati i poteri del Presidente della Repubblica in materia di formazione del Governo e di scioglimento anticipato della camera politica. La verticalizzazione del potere a vantaggio dell’esecutivo non viene tanto dalla revisione costituzionale, ma dalla legge elettorale che crea una legittimazione diretta del premier.

Per il secondo aspetto, si introduce la cosiddetta clausola di supremazia, che è propria dei sistemi federali e regionali, e si riportano alla competenza legislativa esclusiva dello Stato materie che improvvidamente erano state collocate nelle competenza concorrente Stato-regioni, la quale è abolita con un effetto di semplificazione del sistema di riparto. Vengono poi enumerate materie nelle quali più evidente è la vocazione regionale a legiferare. Nel complesso si traducono in norme orientamenti della Corte costituzionale. Sterilizzare completamente un possibile contenzioso Stato-regioni è impossibile, ma sicuramente il Titolo V è stato migliorato e la canalizzazione di esigenze degli enti territoriali tramite il Senato potrebbe disinnescare preventivamente parte dei conflitti.

I concreti effetti della riforma dipenderanno tuttavia anche dalle pagine che essa lascia ancora da riempire da parte del legislatore ordinario e delle camere nell’esercizio del loro potere regolamentare. Facciamo degli esempi.

In primo luogo, v’è il tema della legge elettorale del Senato che la riforma lascia in bilico tra il potere di nomina dei consigli regionali e la volontà dei cittadini. Si dovrebbe operare nel senso di valorizzare la libertà di scelta di questi ultimi per conferire maggiore legittimazione democratica ad un’assemblea che avrà, come ho già sottolineato, poteri considerevoli. Si dovrà definire in che cosa consiste l’inedita funzione di “raccordo” del Senato nel rapporto Stato-regioni e enti locali, nonché con l’Unione Europea. Si dovrà dare corpo alla figura del referendum propositivo, per ora solo enunciata.

Un’importanza decisiva avranno i regolamenti parlamentari (il Senato se ne dovrà dare uno nuovo di zecca) nell’ attuare le nuove norme costituzionali: le diverse tipologie di procedimento legislativo; la problematica ipotesi di accordo tra i presidenti d’assemblea nella scelta di quello da seguire a seconda del tipo di progetto di legge; il procedimento di approvazione delle leggi a data fissa; le garanzie per le opposizioni; al Senato, le  procedure di interlocuzione con il Governo poiché l’assenza del rapporto fiduciario non esclude un rapporto tra i due organi.

La riforma, oltre agli aspetti positivi di cui ho detto, ne presenta di problematici. La sua resa dipenderà dalla sua attuazione non solo sotto l’aspetto normativo, ma da come le forze politiche sapranno interpretarne e svilupparne gli aspetti migliori.

La funzione del referendum costituzionale non è quella di giudicare un leader politico, ma di valutare la qualità dell’innovazione proposta. Si poteva fare di meglio, ma progressi rispetto alla situazione attuale su elementi di fondo del nostro assetto istituzionale ci sono e sono evidenti. E’ ad essi che si deve guardare per esprimere un giudizio positivo.

Vogliamo concretizzare un dibattito di quasi quaranta anni o pretendiamo di trascinarlo all’infinito in maniera inconcludente? Il tempo è scaduto.

Vincenzo Lippolis, Professore ordinario di diritto pubblico comparato nell’Università degli studi internazionali di Roma

 



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