Come di consueto, i lavori parlamentari sono stati sospesi nell’ultima settimana della campagna elettorale per un turno consistente di rinnovi amministrativi come questo, cui sono interessati più di 1300 comuni, dei quali alcuni importanti come Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli e Cosenza. Si consente così ai dirigenti dei partiti di partecipare più intensamente ai comizi e alle altre manifestazioni di sostegno ai loro candidati alla guida delle città.
Silvio Berlusconi, decaduto nell’autunno di tre anni fa da senatore per una condanna definitiva per frode fiscale, non aveva certo bisogno della sospensione dei lavori parlamentari per mettersi a girare come una trottola per l’Italia a sostenere i candidati di Forza Italia o gli altri concordati, dove e quando è stato possibile, con i vecchi alleati di governo, o con quel che n’è rimasto dopo le numerose rotture avvenute negli ultimi tempi. A Roma, per esempio, i forzisti hanno potuto ritrovarsi con i “traditori” centristi di Angelino Alfano a sostegno di Alfio Marchini, dopo il fallimento della candidatura di Guido Bertolaso concordata con i Fratelli d’Italia e i leghisti di Matteo Salvini. Che poi sono diventati, agli occhi di Berlusconi, traditori a loro volta per essersi “incapricciati” con la corsa di Giorgia Meloni.
Altri “traditori” come quelli di Ala di Denis Verdini e amici hanno preferito sostenere invece i candidati del Pd, come Roberto Giachetti a Roma, Valeria Valente a Napoli e Carlo Guccione a Cosenza.
Solo a Milano i due vecchi schieramenti di centrodestra e centrosinistra, ma soprattutto il primo, sono riusciti a ricomporsi in qualche modo attorno a due candidati –Stefano Parisi e Giuseppe Sala – che non a caso sono quelli che più si contendono il traguardo, peraltro facilmente scambiabili l’uno con l’altro per fisionomia politica e precedenti esperienze. Ma è un caso eccezionale in un quadro di tutt’altro segno e di confusione: l’unico, non a caso, dove i genieri della demolizione politica, quali possono essere considerati i grillini, non hanno ruolo nella partita, diversamente da Roma. Dove ormai la corsa sembra essere fra chi dovrà contendere nel ballottaggio la vittoria alla pentastellata Virginia Raggi.
Sui sindaci, scambiati per esempio di stabilità e certezza per una ventina d’anni, da quando ne fu decisa l’elezione diretta, sino a procurarsi la sarcastica definizione di “cacicchi” da leader nazionali infastiditi dal loro accresciuto potere, come il Massimo D’Alema dei tempi d’oro, si stanno riversando i danni dello spappolamento dei partiti e del bipolarismo festeggiato con l’esordio politico di Berlusconi nel 1994.
Potrebbe sembrare curiosa, alla luce della realtà sopravvenuta negli ultimi anni, la decisione di festeggiare i 70 anni della Repubblica facendo aprire proprio da una delegazione di sindaci, la categoria più espressiva di una crisi d’identità politica, la tradizionale sfilata militare del 2 giugno. E’ un omaggio forse più alla provenienza del presidente del Consiglio, giunto a Palazzo Chigi dal Palazzo Vecchio di Firenze, che alla decantata centralità delle autonomie locali.
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Se l’area di quello che fu il centrodestra sembra, a parte la già ricordata eccezione di Milano, la più dissestata in questo importante turno di elezioni amministrative, neppure quella di centrosinistra, almeno come ci siamo abituati a considerarla nella cosiddetta seconda Repubblica, brilla per chiarezza e tenuta.
Pier Luigi Bersani si è vantato qualche giorno fa di “aver fatto campagna elettorale per queste amministrative più di ogni altro” nel Pd, precisando però di avere chiesto voti “con i miei argomenti”. Che non sono notoriamente quelli del segretario del partito Renzi, lamentatosi infatti delle perduranti polemiche interne al Pd anche in questa campagna elettorale, nonostante le moratorie da lui proposte più volte. Moratorie tuttavia non favorite – bisogna pur riconoscerlo – dalla prevalenza che lo stesso Renzi ha voluto dare alla più lunga campagna referendaria sulla contestata riforma costituzionale, passata in Parlamento senza la maggioranza dei due terzi necessaria per scansare il cosiddetto referendum confermativo.
A Roma lo stesso candidato del Pd al Campidoglio ha raccolto, e quindi accreditato, le voci di una forte dissidenza degli amici di D’Alema, che considerandolo troppo renziano sarebbero tentati dal voto disgiunto: per Alfio Marchini sindaco e per le liste del concorrente a sinistra Stefano Fassina, che riuscirà forse a portare in Campidoglio qualche consigliere comunale.
Sarà una cattiveria, una malizia infondata, come tante volte accade in politica, ma di certo nessuno ha visto sinora D’Alema impegnato nella campagna elettorale, sia pure con i suoi “argomenti”, come si è vantato Bersani. Se ne ricordano solo frasi imbarazzate nel salotto televisivo di Lilli Gruber quando non ancora erano state presentate le liste ma Giachetti era già stato indicato in corsa per la carica di primo cittadino. E D’Alema si riservava di riflettere se fosse il caso di rispettare l’abitudine di votare per il candidato del suo partito.
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A Napoli, dove al sindaco uscente Luigi De Magistris non resta ormai che usare la fascia tricolore di sindaco come bandana, tanto è sicuro di averla ormai annessa al suo guardaroba, un esperto del territorio come Claudio Velardi, già collaboratore di D’Alema e ora grandissimo estimatore di Renzi, in una intervista al Mattino ha duramente attaccato Antonio Bassolino e compagni, accusandoli praticamente di strizzare l’occhio a De Magistris o al candidato berlusconiano Gianni Lettieri piuttosto che appoggiare la candidata e deputata del Pd Valeria Valente. Che è colpevole di avere vinto le primarie alla solita maniera, ormai, di Napoli: fra denunce di brogli, foto compromettenti, ricorsi respinti e conseguenti rancori. Che sono stati e continuano ad essere la fortuna del sindaco spavaldamente in carica.