Il referendum d’autunno sulla riforma costituzionale così ostinatamente sovrapposto da Matteo Renzi alla campagna elettorale per le amministrative del 5 e del 19 giugno, fra primo e secondo turno, sta facendo saltare letteralmente i nervi alla già inquieta e divisa minoranza del suo partito. Che vorrebbe vedere il segretario, e presidente del Consiglio, più impegnato sulle scadenze comunali per inchiodarlo meglio agli eventuali insuccessi, cui cercherà disinvoltamente di contribuire, visto il fastidio non nascosto a Roma, per esempio, verso la candidatura del troppo renziano Roberto Giachetti.
Lo stesso Giachetti ha ammesso pubblicamente di non poter contare su tutto il suo partito nella corsa al Campidoglio, né in prima battuta e tanto meno nel ballottaggio, se dovesse toccare a lui, come gli ultimi sondaggi consentiti fanno credere, il compito di contendere la carica di sindaco alla grillina Virginia Raggi. Che è rimasta in testa, per quanti danni le abbiano procurato le tensioni e confusioni fra i pentastellati dopo la sospensione del primo cittadino di Parma Federico Pizzarotti dal movimento 5 Stelle.
Se veramente il secondo tempo della partita capitolina dovesse giocarsi fra lui e la Raggi, il povero Giachetti potrebbe contare più sull’aiuto degli elettori di centrodestra inutilmente indirizzati da Silvio Berlusconi verso Alfio Marchini che sull’aiuto degli orfani della candidatura di sinistra dell’ex piddino Stefano Fassina, graziata dal Consiglio di Stato, dopo le irregolarità contestate alla presentazione delle liste, ma destinata a rimanere quella che è: un’operazione di disturbo contro Giachetti, appunto. A tal punto di disturbo da fornire infine fieno alla Raggi piuttosto che all’uomo di Renzi.
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Certo, se le cose dovessero finire a Roma davvero con la vittoria di Giachetti grazie al soccorso degli orfani della candidatura di Marchini, assisteremmo al divertente spettacolo di un fuoco incrociato della destra contro Berlusconi e della sinistra contro Renzi.
In particolare, da destra Giorgia Meloni e il suo patron Matteo Salvini accuserebbero l’ex Cavaliere di avere usato Marchini come un espediente, o quasi, per favorire nell’ultima curva della corsa il corridore di Renzi, nella logica dell'”inciucio del Nazareno” gridato dalla sorella dei Fratelli d’Italia quando alla sua candidatura il fondatore di Forza Italia preferì quella dell’imprenditore romano.
Da sinistra, nel Pd e fuori, Renzi verrebbe accusato di essersi inventato una candidatura funzionale più ai gusti e agli interessi politici dei vari Berlusconi, Verdini, Casini e Alfano di nuovo insieme che ai gusti e agli interessi degli orfani o nostalgici dell’Ulivo, della Quercia e altre piante affini al post-comunismo.
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Uno scenario romano di questo tipo, contrassegnato cioè da una vittoria del candidato renziano grazie ai voti provenienti dall’area elettorale che fu del centrodestra, si proietterebbe pari pari sul referendum autunnale. Che Renzi potrebbe vincere solo pescando più voti al centro e a destra, refrattari al no reclamato insieme da Berlusconi, da Salvini e dalla Meloni, che a sinistra. Dove non c’è proprio aria, al vertice e alla base, di voler aiutare il presidente del Consiglio e segretario del partito a vincere la posta ormai della sua vita. Mancata la quale, a Renzi non rimarrebbe che dimettersi, anche se Pier Luigi Bersani – che ha più sale in zucca nella minoranza del Pd, fedele più all’imitazione benevola di Maurizio Crozza che al ghigno preteso da Massimo D’Alema, uno specialista del ramo – ha appena diffidato il presidente del Consiglio dall’aprire in quel caso la crisi di governo minacciata col “ritorno a casa”.
Bersani, schierato più sul nì che sul no dei suoi compagni di corrente o di area, e di uno Scalfari in questo irriducibile, come ha appena confermato sulla sua Repubblica, sa evidentemente che una crisi di governo post-referendaria equivarrebbe, nella logica di un Renzi sconfitto sulla strada nota, a torto o a ragione, come il Partito della Nazione, al “muoia Sansone con tutti i filistei”.
La sinistra interna ed esterna al Pd rimarrebbe col classico cerino acceso in mano, costretta poi a ingoiare, come le ha preannunciato Renzi, “inciuci” peggiori di quelli subiti sinora. E a destra Berlusconi celebrerebbe la vittoria del no col funerale della sua già declinata leadership, a vantaggio di Salvini e di una Lega lepenista. Bel risultato davvero, dopo quello che ha dovuto incassare all’Olimpico con la sconfitta del suo Milan nella corsa alla Coppa Italia.