Le reazioni di Carmelo Barbagallo e Annamaria Furlan al discorso d’insediamento di Vincenzo Boccia al vertice di Confindustria hanno evitato i toni bellicosi, ma Susanna Camusso – la “lady no” del sindacato italiano – ha respinto con fermezza l’invito a una svolta nella politica contrattuale. Che un capitalismo a lungo imputato di tendenze malthusiane, votato al disimpegno negli investimenti e al ritardo tecnologico, accampi ora la pretesa di una rivoluzione copernicana nel sistema delle relazioni industriali (primato del decentramento aziendale, incrementi salariali legati all’aumento della produttività aziendale), risulta ancora inconcepibile per la cultura della Cgil. Eppure la frana delle adesioni e dei suffragi in alcuni dei complessi manifatturieri più importanti del Paese dovrebbe suonare da campanello d’allarme, e dovrebbe sollecitare una riflessione sugli errori commessi nel recente passato. Perché, se nell’arco di un quadriennio la concertazione è stata gettata alle ortiche, la responsabilità non è solo del “neoassolutismo” di Sergio Marchionne o del populismo di Matteo Renzi. Ma la parola “autocritica” non appartiene al lessico della confederazione maggioritaria, nonostante sia impressa nella sua memoria collettiva.
Il 26 aprile 1955, infatti, Giuseppe Di Vittorio ne fece una ormai celeberrima, all’indomani di una sconfitta pesante della Fiom alle elezioni della commissione interna della Fiat. L’anziano leader fu allora impietoso con la sua creatura, denunciandone “la scarsa conoscenza della vita reale dei lavoratori nelle fabbriche”, “l’assenza di legami vivi, diretti, permanenti, col grosso della classe operaia”, “le deficienze gravi [che avevano impedito di] comprendere che l’azione padronale contro i lavoratori non è fatta soltanto di terrorismo, di dispotismo, di brutalità e di violenza”. Sessant’anni fa Di Vittorio spese tutta la sua autorevolezza per legittimare la ricerca di una linea d’azione tagliata a misura della singola impresa, così da trasformare le “benefiche concessioni” dell’aziendalismo in materia di negoziato collettivo. In altri termini, concesse un lasciapassare al decentramento della contrattazione e, insieme, a una lettura del capitalismo industriale che ne cogliesse le novità e non più l’arretratezza e la cronica inclinazione a mortificare le forze produttive. Con il suo gesto, insomma, Di Vittorio consentì alle energie migliori della Cgil di liberarsi dal giogo asfissiante di un rigido centralismo. È esattamente quello che occorrerebbe alla Cgil del tempo presente, anche per non giocare più di rimessa di fronte ai cambiamenti del lavoro e della sua organizzazione, cercando soltanto di limitarne i danni (reali o presunti). Purtroppo il guaio, come recita un motto popolare, è che “non ci sono più i capi di una volta”.