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Perché l’Arabia Saudita tifa per il petrolio low cost

L’Arabia Saudita non ha ancora vinto la sua “battaglia del petrolio”, ma potrebbe perdere quella della propria stabilità interna. I problemi di Riad cominciarono esattamente nel momento in cui le nuove tecnologie consentivano di estrarre petrolio anche dallo scisto mentre, quasi contemporaneamente, Teheran decideva che era accettabile negoziare sinceramente la fine delle sanzioni internazionali con il gruppo dei 5 + 1.

L’Iran, almeno dalla fine della seconda guerra mondiale, è sempre stato lo spauracchio storico dei sauditi nell’area, ma la fortuna di questi ultimi fu che gli Stati Uniti, in rottura con gli iraniani dal momento della rivoluzione contro lo Scià, avevano assoluto bisogno di un alleato che ospitasse le basi Usa a garanzia dei rifornimenti mondiali di petrolio che partivano dal Golfo. In quella zona l’Arabia Saudita era, ed è, la più importante fonte di esportazione dell’oro nero e un rapporto di stretta collaborazione economico e militare conveniva sia a loro sia agli americani.  Le cose sono cambiate quando lo shale oil ha cominciato a promettere di trasformare il più grande consumatore (e importatore) di petrolio al mondo in un produttore lui stesso, autosufficiente e perfino esportatore. Senza il petrolio da scisto un allontanamento tra i due sarebbe inimmaginabile ma, una volta scomparso il bisogno interno americano, anche la garanzia militare fornita da Washington potrebbe venire meno. Per di più, un Iran giudicato non più pericoloso e riammesso nella comunità internazionale potrebbe pretendere di esercitare una propria supremazia nell’area, in competizione con Riad. Le importanti entrate in valuta, previste grazie alla riammissione sul mercato mondiale del petrolio iraniano, garantirebbero a Teheran i mezzi per finanziare una sua nuova politica estera ancora più aggressiva.

Una duplice minaccia, quindi, per i sauditi: la perdita di un ruolo privilegiato dal punto di vista politico e, contemporaneamente, un ridimensionamento economico dovuto all’inevitabile diminuzione delle proprie quote nella vendita dell’oro nero. Come non bastasse, la crisi economica mondiale e la conseguente diminuzione della domanda ha creato l’attuale eccesso di offerta.

Davanti a questo scenario, la reazione di Riad è stata, in qualche modo, obbligata. Doveva cercare di mettere fuori mercato i nuovi produttori americani e lanciare avvertimenti politici agli Usa e a Teheran, affinché non cercassero di cambiare gli equilibri politici e militari esistenti.

E’ nato anche così il sostegno ai gruppi sunniti in Iraq, Libano e Siria e, quasi in concomitanza, l’impegno militare diretto in Yemen. Dal punto di vista diplomatico, si sono cercate nuove aperture verso Cina e Russia ma, di là di dichiarazioni formali, con poco successo. La Cina non ha alcuna intenzione di immischiarsi nella querelle tra Arabia Saudita e Iran e la Russia vede in Teheran una sponda indispensabile per il suo conflitto con gli Usa. Non sono certo mancate, nel frattempo, azioni di lobby presso il Congresso (cosa tentata in funzione anti-iraniana anche da Israele) ma, anche qui, con scarsi risultati.

Sotto l’aspetto economico, il quadro che si prospettava nel 2014 era ancora peggiore: gli Stati Uniti avevano già raggiunto l’autosufficienza e la diminuzione della produzione in Libia e in altre zone di conflitto non bastava a ridurre l’eccedenza dell’offerta. Fu allora che Riad decise di aumentare la propria produzione inondando il mercato mondiale di petrolio, facendo così calare immediatamente il prezzo del petrolio. Tra giugno e novembre 2014 si passò da 115 a 80 dollari al barile.

Intanto, gli Usa, che nel gennaio 2011 producevano cinque milioni e mezzo di barili il giorno, nel 2015 avevano raggiunto i nove milioni e 300 mila, cioè un volume quasi pari a quello saudita.

Poiché il costo di estrazione del petrolio saudita è molto inferiore ai costi richiesti dal metodo shale, il prezzo poteva calare ancora. Con un valore sopra i 100$ i produttori Usa avrebbero potuto raggiungere facilmente i quattordici milioni di barili al giorno entro il 2020, ma questo scenario diventava assolutamente inaccettabile per Riad. Anche attorno agli 80 $, la maggior parte dei produttori di shale avrebbe potuto accumulare profitti e solo al di sotto di quella cifra la produzione locale avrebbe cominciato a soffrire. Nel Marzo 2015 la produzione saudita crebbe di altri 600 barili il giorno (per dare un’idea, la produzione italiana in Basilicata potrebbe teoricamente arrivare a un picco di 300 mila barili il giorno) e il prezzo crollò a 45 $ al barile.

La mossa era urgente, anche perché il prossimo ritorno sul mercato del petrolio iraniano avrebbe ulteriormente eroso le quote dei tradizionali produttori e dato nuova linfa economica agli Ayatollah. Si arrivò così, addirittura, sotto i 30 $ al barile.

Riad sapeva che questa strategia avrebbe provocato gravi conseguenze al bilancio dello Stato, ma contava sull’immensa riserva di valute accumulata nel passato. Tali riserve ammontavano a più di 700 miliardi di dollari e, quindi, teoricamente erano sufficienti per garantire la tenuta dei conti per qualche anno. D’altra parte, si pensava che sarebbero bastati pochi mesi per far fallire i produttori americani e scoraggiare nuovi investimenti per l’ammodernamento dei pozzi iraniani.

In realtà, il crollo dei prezzi mise fuori gioco moltissimi piccoli produttori americani ed esattamente quelli che avevano finanziato le loro estrazioni con generosi prestiti bancari garantiti dai prezzi alti allora correnti. Alcuni di loro, però, sono riusciti a resistere e continuano anche ora a estrarre. A sopravvivere, come prevedibile, sono gli operatori dalle dimensioni maggiori e dagli interessi più diversificati che, grazie a una continua opera di maggior efficienza – cui contribuisce anche un costante progresso tecnologico – trovano il modo di rendere profittevole l’attività di estrazione del petrolio da scisti anche alle attuali condizioni di mercato. Un pozzo tradizionale, per ragioni tecniche operative, può cominciare a entrare in funzione solo anni dopo la scoperta del giacimento mentre nel caso dello shale bastano pochi mesi. Ciò rende la produzione di quest’ultimo molto più elastica e basta un piccolo recupero del prezzo, almeno attorno ai 60 dollari, per tornare a fare profitti.

Quando il prezzo era attorno ai 100 $ al barile, Riad incassava annualmente almeno 240 miliardi di dollari. Tuttavia, la spesa statale nel 2014 arrivò a più di 290 miliardi e si ebbe così un deficit di cinquanta miliardi. Con entrate a soli 150 miliardi a causa dei prezzi attuali, considerate anche le spese per sostenere i conflitti in corso, il deficit agglomerato si mangerà le riserve in brevissimo tempo.

Cambiare politica è oggi per Riad impossibile, perché accettare un forte aumento di prezzo rimetterebbe immediatamente in gioco i produttori allontanati, favorirebbe il rientro iraniano e ridurrebbe, di conseguenza, la quota di mercato saudita. Senza contare che anche un prezzo più alto, con una domanda debole, non garantirebbe un sufficiente incremento delle entrate di Riad.

La soluzione è stata trovata pilotando il prezzo verso un valore leggermente al di sotto dei 50 dollari, abbastanza consistente cioè da ridurre le perdite, ma allo stesso tempo inferiore ai livelli di redditività dei concorrenti. In più, è stato lanciato un ambizioso programma di ristrutturazione di tutta l’economia del Regno verso settori non petroliferi (vedi il progetto del Principe Mohammed Bin Salman Vision 2030), accompagnato da una forte riduzione delle spese correnti.

Si toccheranno, quindi, al ribasso le ingenti spese sociali che garantivano il consenso diffuso verso la Casa Regnante, mentre non si potranno ridurre quelle, altrettanto importanti, nel settore della difesa.

Un simile tentativo, se pur su scala molto più ridotta, è stato tentato recentemente anche dal Kuwait, ma lì il Governo, davanti alle forti proteste dei lavoratori locali, ha dovuto fare una parziale marcia indietro.

Occorrerà vedere, a questo punto, non solo se il piano saudita potrà realmente funzionare, ma anche quale sarà la reazione popolare e, soprattutto, dei giovani abituati ad aspettarsi un benessere garantito e messi ora davanti ad un futuro incerto che manifesterà i propri eventuali frutti non prima di una decina d’anni.

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