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Brexit, come cambieranno i rapporti del Regno Unito con Europa, Usa e Cina. Parla Pelanda

No negotiation before notification” è la linea sintetizzabile dell’incontro tra Francia, Germania e Italia, che a Berlino hanno affrontato in via preventiva l’approccio alla Brexit, l’uscita, votata tramite il referendum giovedì 23 giugno, del Regno Unito dall’Unione Europea. Secondo le ricostruzioni, è stata la Germania, di sponda con l’Italia, a bloccare qualsiasi accelerazione, mentre il presidente francese François Hollande – e prima anche il presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker – aveva posizioni più propense a spingere gli inglesi a formalizzare in fretta la richiesta di esclusione (la “notification“) e dunque l’avvio dei protocolli collegati all’articolo 50 del Trattato di Lisbona, quello ciò che prevede la fuoriuscita di un paese dall’unione. Lunedì, nel primo intervento dopo il voto referendario, il premier dimissionario David Cameron ha parlato alla Camera dei Comuni, dichiarando che non sarà lui a presentare richiesta formale di ritiro dall’Ue, ma il suo successore, e dunque il processo seguirà un ulteriore rallentamento per i passaggi politici interni.

IL PESO DELLA CINA SULLA BREXIT

Quando ci sarà la Brexit? “Non è una questione ineluttabile, per il momento il rinvio è lo scenario più credibile”, commenta in una conversazione con Formiche.net il professor Carlo Pelanda, coordinatore del dottorato di ricerca in geopolitica e geopolitica economica dell’Università Guglielmo Marconi di Roma ed editorialista di Italia Oggi e Mf/Milano Finanza. “Gli inglesi si sono infilati in un bel pasticcio, sebbene abbiano perseguito un piano strategico chiaro: la Brexit in sé – aggiunge Pelanda – è stata una sorta di incidente, legato anche alle questioni interne ai conservatori che hanno spinto Cameron alla resa dei conti e al voto dello scontento popolare, ma dietro c’è una volontà che nasce più o meno dal 2010. Londra sta cercando di mantenere i piedi ben saldi nel passato, mentre vuole le mani libere sul futuro”. Ossia: “Gli inglesi hanno da tempo messo nel proprio mirino di interessi la Cina e il mercato asiatico, sul quale credono in un approccio più mercantilistico che politico: non a caso la borsa di Londra è diventa l’hub mondiale per l’internazionalizzazione dello Yuan, la moneta cinese. Sotto questo punto di vista il vero distacco non è dall’UE ma dagli Stati Uniti, con cui da tempo non condividono la volontà di contenimento e condizionamento su Pechino”. Questo tentativo di cercare più spazio nel sistema globale ha portato Londra a pensare che la contrazione americana legata al disimpegno obamiano e gli schematismi rigidi imposti dall’Europa sarebbero stati controproducenti per i propri interessi. “L’establishment exitista avrebbe preferito a una vittoria una sconfitta di pochi zero virgola” che avrebbe permesso al Regno Unito di restare in Europa, ossia di mantenersi all’interno del sistema di scambio commerciale più grande del mondo (i piedi ben piantati nel passato), rivendicando però il diritto a un ulteriore eccezionalismo legato alle richieste del voto popolare (le mani libere sul futuro) per operare senza troppe regolamentazioni, in Cina soprattutto.

GLI SCENARI

Ora però la Brexit ha vinto, e dunque quali sono gli scenari futuri con cui il Regno Unito bilancerà la situazione? “Ci sono tre opzioni che rinvierebbero la decisione. La prima, un contro-referendum, che consegnerebbe un’ampia vittoria del “Remain” ribaltando il risultato, ma è una via piuttosto complicata perché lascerebbe spazio per un secondo referendum per l’indipendenza scozzese, che potrebbe sfasciare il Regno Unito (Cameron s’è già mostrato poco favorevole a questa via. ndr). Seconda possibilità, le urne: se si dovesse andare a votare con una campagna elettorale impostata su un accordo europeista tra laburisti e conservatori, a quel punto il futuro governo potrebbe avere la legittimazione del voto e dunque avere un mandato di ordine superiore al referendum consultivo del 23 giugno. In questo caso il leader dei conservatori diventerebbe il consigliere dello Scacchiere George Osborne, che piace alla City come alla Regina (è stato il primo membro del governo a dare segnali di rassicurazione, dicendo che il Regno Unito affronterà il futuro “comunque da una posizione di forza”. ndr) Ma ci sono due generi di problemi su cui gli analisti stanno lavorando: uno è tecnico, perché in alcuni collegi i Tories potrebbero perdere seggi a favore dello Ukip (il partito indipendentista che ha cavalcato il Brexit come leva populista elettorale, aumentando i propri consensi. ndr) e poi le questioni legate ai Labour”. Secondo il leader della sinistra inglese, Jeremy Corbyn, i negoziati per uscire dall’UE dovrebbero essere avviati subito per non “lasciare il paese in uno stato di paralisi”, ha detto. “Per far sì che questa seconda opzione si realizzi – spiega Pelanda – occorrerebbe la sua sostituzione, cosa non facile nonostante la sfiducia ricevuta dai parlamentari”. Terza opzione: “Un voto contrario in parlamento, anche in questo caso frutto di un accordo tra i due principali partiti (Labour e Conservative, ndr), con il quale si ribalterebbe la votazione referendaria”, in questo caso il rischio è che la decisione dall’alto finisca per favorire le posizioni populiste e gentiste di Farage & Co.

LA VIA “EUROPEA” O “AMERICANA”

A queste tre opzioni di “rinvio” della decisione, si aggiunge anche un’altra possibilità, con cui l’Europa toglierebbe Londra dall’imbarazzo: “UK esce effettivamente dall’UE, ma parte parallelamente un negoziato per chiudere accordi che garantirebbero ai britannici di restare parte del mercato libero”. Ossia, Londra fuori dal processo politico ma pienamente integrata in quello economico europeo con accordi simili a quelli chiusi a febbraio (che avevano convinto Cameron), un passaggio che non creerebbe nessun genere di problemi né a europei né a inglesi, “però non piace troppo ai poteri nel Regno Unito, perché in questo modo non avrebbero nessuna leva politica per influenzare quei processi economici in cui sono inclusi” (torna la questione dei “piedi piantati”). In tutto questo, c’è anche il peso degli Stati Uniti e delle future elezioni presidenziali: “Se vincesse Hillary Clinton l’ingaggio in europa tornerebbe forte, avrebbe peso nel processo Brexit, perché cercherebbe di accelerare la chiusura del TTIP (l’accordo di libero scambio tra Usa e Uendr) favorendone l’ingresso agli inglesi alle stesse condizioni dell’Europa, e anche questo permetterebbe la creazione di un nuovo spazio economico fluido, compattando di nuovo l’Occidente e mettendo il risultato referendario in secondo piano”. “Questa ri-associazione è uno degli aspetti fondamentali, anche dal punto di vista geopolitico, perché se Londra si trovasse esclusa allora potrebbe perdere interesse nel difendere dal punto di vista nucleare l’Europa (a cui resterebbe solo l’arsenale di Parigi. ndr)”. Se vincesse Donald Trump? “Sebbene non li ami, anche Trump alla fine si troverà costretto a firmare questo genere di trattati, soprattutto quello sul Pacifico per non scontentare il Giappone, ma in Occidente potrebbe decidere di creare un blocco anglofono più che europeo, anche se a quel punto Londra si troverebbe costretta a rinunciare alla traiettoria cinese, perché chiaramente a Pechino credono in uno scambio reciproco: Londra porta cinese in Europa, in cambio di essere il referente privilegiato della Cina”.

UN CANTIERE APERTO

“Il futuro è un cantiere aperto”, dice Pelanda: “Per dire, se il Regno Unito dovesse non riuscire a chiudere accordi economici compiacenti con l’UE, potrebbe anche cercare di diventare il riferimento per un blocco baltico, spingendo alcune nazioni del nord Europa, come pure la Polonia, ad uscire, creando un’area in cui giocare la propria influenza economia e monetaria: sono scenari attualmente in studio”. Uno situazione che farebbe tremare la Russia? “Chiaro. La Russia teme la disintegrazione dell’Europa, perché la frammentazione significherebbe creare ulteriori possibilità per il ritorno in forza dell’America, piuttosto che favorire i rapporti bilaterali: per Mosca la situazione migliore è un’Europa abbastanza unita, che faccia accordi di libero scambio con gli Stati Uniti lasciandogli una finestra aperta. Lo spettro peggiore per Vladimir Putin è restarne fuori e diventare eccessivamente dipendente dalla Cina, e per questo vorrebbe cercare di ottenere in cambio di un’azione regionale di bilanciamento che può interessare anche l’Occidente, spazi economici più aperti”.

IL RINVIO

In un momento così complesso il “rinvio” è lo scenario non solo più conveniente ma anche più probabile, spiega il professore: “Non è vero che lo stallo scompensa i mercati, anzi, i mercati vedrebbero il rinvio con fiducia, perché ciò che vogliono è un’Eurozona stabile e attorno uno spazio di politica economica e commerciale che garantisca fluidità e libero scambio. Ci sono le elezioni americane, quelle francesi e quelle tedesche: prima di parlare di Brexit è molto probabile che dovranno passare questi tre appuntamenti”.

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