I fatti dicono questo: nonostante l’emozione provocata dal barbaro omicidio della parlamentare Jo Cox (evento che molti, a partire dalla reazione dei mercati, avevano considerato conclusivo della campagna, nel senso – pensavano – di un’opzione Brexit irrimediabilmente compromessa), la corsa è ancora “neck and neck”. Nelle ultime 96 ore, sono usciti quattro sondaggi: due di essi danno un pareggio assoluto; uno dà a Remain un punto di vantaggio; il più sbilanciato dà ancora a Remain tre punti di margine. Insomma, tutto apertissimo.
Personalmente ho il cuore diviso. Da un lato, vorrei la Gran Bretagna ai tavoli europei, ovviamente, e auspicabilmente per rovesciarli e riapparecchiarli. Dall’altro, credo che solo uno shock clamoroso possa costringere l’Ue a guardarsi allo specchio e a comprendere gli immensi errori di questi anni. Inutile girarci intorno. Anche chi ha avuto una grande speranza europea, oggi vede un’Ue che è tecnicamente ademocratica, prigioniera di funzionari non eletti, e soprattutto incapace di gestire qualunque crisi, dalla Grecia all’immigrazione.
Dinanzi a questo sfascio, un fallimento conclamato, nell’ultimo anno ci sono state tre risposte politiche.
La prima è la devastante linea che chiamerei “Scalfari-Napolitano-Monti”: e cioè un elogio totale dello status quo, a cui Monti ha aggiunto anche una sorta di “maledizione” contro chiunque (in questo caso, gli inglesi: in una riedizione surreale di toni contro la “Perfida Albione”) osi chiedere un’opinione ai cittadini. In sostanza, anziché interrogarsi sugli errori di chi ha buttato al vento occasioni su occasioni, di chi ha distrutto il sogno europeo, ora questo establishment se la prende con gli elettori.
La seconda è l’opzione (devastante per motivi uguali e contrari) di chi vuole invece sfasciare tutto.
La terza linea – a mio parere la più saggia – era quella impostata da Cameron attraverso la rinegoziazione. E per un anno il governo inglese ha cercato sponde per rivedere regole e trattati. Ovunque, purtroppo, si è detto no (Italia inclusa, nonostante il nostra Paese avesse bisogno di agganciarsi al carro di una riforma profonda dell’Ue), e ne è scaturito un accordo al ribasso, insoddisfacente per gli elettori inglesi, e che sta determinando la campagna referendaria al cardiopalma a cui stiamo assistendo.
Diciamolo subito. L’Inghilterra non ha nulla da temere, comunque vada. E’ la quarta potenza militare al mondo; è la quinta economia mondiale; da sola, ha prodotto in cinque anni più posti di lavoro degli altri 27 Paesi Ue messi insieme; è un membro autonomo, rispettato e forte della Nato, del G8 e del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Chi ha da temere siamo noi. E due volte: una prima volta, come Paese indebitato, perché se vi saranno tensioni sui mercati, noi rischieremo di pagarle al prezzo più alto. Una seconda volta, perché saremo soggetti passivi delle reazioni di Berlino-Parigi, al cui asse ci siamo ancora una volta (sbagliando) accodati.
Occorre invece, dal 24, qualunque sia l’esito del referendum inglese, promuovere una nuova rinegoziazione. Sia per tutta l’Europa, sia più specificamente per l’Italia: rifiutando la gabbia finale del ministro delle Finanze unico, e invece promuovendo (lo fa la Germania con la sua Corte Costituzionale) un meccanismo per cui i Parlamenti nazionali possano dire no a una norma europea, se non la condividono.
L’Ue non si salverà imponendo a tutti una gabbia di uniformità, dalla Finlandia al Portogallo. Si salverà (forse) se accetterà le diversità, la competizione tra modelli fiscali e giuridici, se sceglierà come bussola non una rigida omogeneità ma una virtuosa flessibilità e un ancora più virtuoso confronto tra soluzioni diverse. Si chiama mercato, concorrenza, competizione: e può funzionare anche rispetto alle istituzioni, contro monopoli e oligopoli.