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Brexit, il bello della democrazia e il brutto del popolo?

I britannici votano la Brexit e già dal giorno dopo si obietta, in Inghilterra e altrove, che il risultato è sbagliato e si discute di come vanificarlo, spiegando che la consultazione è consultiva e il tema invece è di competenza parlamentare, avvertendo che se alle prossime elezioni politiche vincesse un partito fautore del ritorno all’Unione Europea il caos sarebbe ingestibile, addirittura proponendo di tornare subito al voto. È in corso un chiaro esautoramento della volontà popolare, stiamo minando la base della democrazia! Un po’ come se – per fare un esempio paradossale – prima votassimo per abolire il finanziamento pubblico ai partiti e poi ce lo ritrovassimo introdotto sotto forma di rimborso elettorale. Cioè esattamente quello che è accaduto… e non solo con questo quesito referendario.

D’altronde, che sulle cose importanti sia meglio non dare voce alle persone comuni lo dice proprio la nostra Costituzione, escludendo dai temi sottoponibili a consultazione referendaria quelli fiscali, per l’evidente rischio che vengano plebiscitariamente accolte impraticabili proposte di riduzione delle imposte. Servono altri esempi per dimostrare che l’opinione degli elettori non conta nulla, anzi spesso è un impiccio? Pensiamo a quante volte abbiamo scelto – di fatto, anche se formalmente non abbiamo il premierato diretto – un certo governo con un certo capo, per poi trovarci al potere, nell’arco della stessa legislatura, una coalizione e un primo ministro diversi, magari grazie alla transumanza di alcuni parlamentari da una parte all’altra. D’altronde, vogliamo davvero la stabilità? Basterebbero un bel premio di maggioranza, tipo quello della ‘legge truffa’ (con il 50%+1 voto, ci si garantisce due terzi del parlamento), l’abrogazione dell’articolo costituzionale che impedisce di imporre il vincolo di mandato agli eletti e, per sovrappiù, l’automatismo per cui se l’esecutivo va in minoranza cade anche il legislativo. Praticamente, una dittatura a termine. Si assicura, a chi assume il potere, la possibilità di esercitarlo, con l’ovvia facoltà di sostituirlo se a fine mandato i risultati non sono soddisfacenti. Simili escamotage, soprattutto il timore di perdere lo scranno, già oggi garantiscono una buona stabilità nei consigli dei maggiori Comuni.

Certo, va riconosciuto che se il voto popolare di questi tempi se la passa così male è anche perché il popolo non lo sa usare. Vedi la Spagna che, complice un sistema elettorale persino peggiore del nostro, è andata due volte di seguito alle urne senza tirarne fuori un governo di minima coerenza e credibilità. Diciamo la verità: la democrazia sarebbe un’ottima cosa, ma senza il popolo. Il voto è troppo importante per affidarlo agli elettori, non possiamo concedere il suffragio universale a tutti.

Per lo meno, queste sono le cose che dovrebbe dire una voce reazionaria sensata, se ci fosse. Cose semplici, come quelle che in passato, prima del politicamente corretto, si spiattellavano senza tanti complimenti, tipo: “i problemi sono cominciati quando tutti hanno cominciato a leggere e scrivere”. Oppure, per citare il “borghese piccolo piccolo” nella scena dell’ammissione nella massoneria, una delle migliori interpretazioni di Alberto Sordi: “La libertà è una gran bella cosa, peccato ce ne sia troppa”. Certi slogan andrebbero alla grande oggi, basterebbe aggiornarli un minimo. Per esempio, dicendo che per votare, in una realtà complessa come la nostra – che tale è senza dubbio: vale per l’Ue, per le trivelle, per il nucleare… – ci vuole un livello di consapevolezza adeguato, mentre proprio l’aumento esponenziale delle informazioni dovuto alle reti ci rende tutti più ignoranti. Si chiama effetto Dunning-Kruger: il suo più noto assertore è Nicholas Carr, un premio Pulitzer.


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