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Chi e come sta cacciando Isis da Sirte

La BBC le chiama “forze governative”, il New York Times addirittura li definisceUN-backed Libyan fighters“: in effetti i combattenti che sono praticamente entrati a Sirte, la città costiera roccaforte libica dello Stato islamico, appartengono alle milizie misuratine alleate del capo del Consiglio presidenziale e futuro primo ministro appoggiato dall’Onu, Fayez Serraj. Una vittoria libica contro gli occupanti jihadisti arrivati da varie parti del Califfato, ottenuta senza sostegno apparente delle forze internazionali.

CHI COMBATTE A SIRTE

Non sono soldati regolari, però, quelli che stanno scacciando la giunta militarista di Abu Bakr al Baghdadi. L’unico corpo regolare istituito da Serraj, ancora in attesa che il suo embrione diventi il definito governo d’unità nazionale (Gna) con l’avallo del parlamento esiliatosi a Tobruk due anni fa, si chiama Guardia presidenziale ed è ancora troppo giovane per essere lanciato in battaglia; sebbene anche questo sia formato da miliziani tripolitani elevati al rango di regolari. Combatte invece la più esperta Guardia costiera, o ciò che ne resta dopo lo scisma amministrativo che nel 2014 ha diviso di fatto il paese in due macro-regioni autonomamente governate: il corpo di polizia marittima fedele a Tripoli è quello che dovrebbe essere l’oggetto di una missione di addestramento su cui c’è già la disponibilità dell’Unione Europea, dopo che il Consiglio presidenziale ha formalizzato una richiesta di aiuto. Nella fascia sudest di Harawa, invece, la campagna anti-Is è gestita dalla milizia Pfg, le guardie degli impianti petroliferi guidate da Ibrahim Jadhran, che accoglie amichevolmente il governo di Serraj, ma per definirlo un corpo “governativo” (nel senso di sottoposto al governo) bisogna superare vari paletti che nel corso del tempo ne hanno creato la perimetrazione dell’indipendenza: Jadhran è forte, ha soldi, armi e clienti importanti, perciò fa quel che vuole. Il warlod (definizione di Foreign Policy) della guerra libica, Khalifa Haftar, in queste battaglie contro lo Stato islamico non è pervenuto, perché concentrato a combattere a Bengasi e Derna, due città della Cirenaica dove ci sono sacche controllate da milizie islamiste, alleate anche ad alcune forze misuratine. Per Haftar si configura un altro problema: due dei suoi battaglioni a Bengasi la scorsa settimana hanno dichiarato fedeltà a Mahdi al Barghathi, ministro della Difesa in pectore del governo di Serraj, ex vice del generale cirenaico. Questo, a parte il guaio per Haftar, è un segnale positivo: ci sono tre gruppi in coordinamento, parecchio per lo standard libico (fino a un anno fa gli stessi si combattevano l’un l’altro). Ora il generale dalla Cirenaica deve pensare a sistemare il problema, perché le forze dall’altra parte della Libia acquisiscono territorio e consenso.

L’OCCIDENTE HA SOVRASTIMANTO LA MINACCIA?

Dei tanti piani occidentali annunciati per intervenire in Libia, oggi, al 10 giugno 2016, resta l’immagine dei pick up misuratini in circolo sulla rotatoria che i baghdadisti utilizzavano a Sirte per le impiccagioni. Si trova all’ingresso occidentale della cerchia abitativa, e i corpi appesi (49 nell’ultimo anno) erano un monito per gli abitanti: finirete così se non vi sottomettete alle volontà del Califfo; la città non è mai stata troppo accondiscendente, e, differenza di quello che accade in Iraq (e pure in Siria), moti di protesta c’erano già stati la scorso estate, brutalmente repressi dal Califfo. A poca distanza dalla rotatoria dove i miliziani di Misurata hanno simbolicamente abbattuto la force dei dissidenti, c’è la sala conferenze di Ouagadougou, costruzione voluta da Gheddafi per dare un soffio internazionale alla sua città natale, che i seguaci di Baghdadi utilizzavano per le sessioni di indottrinamento religioso. Si combatte là, nel cuore del proselitismo califfale in Libia. Lo Stato islamico sta perdendo territorio a velocità siderale e questa contrazione è un buon segnale per l’Occidente; e corrisponde a un soffocamento dell’interesse mostrato in precedenza: da Washington dicono che adesso non c’è nessun piano per intervenire in Libia, c’erano invece tre settimane fa, quando lo spin politico americano, e occidentale in genere, mirava a sottolineare l’impegno profuso già sul campo (forse anche per svegliare questo genere di risposta dei libici). Certo, prima di entrare in città occorrerà, come da prassi, fare i conti con i cecchini e le trappole esplosive con cui i combattenti vocati al martirio del Califfato hanno infestato le strade che separano il fronte dalla propria estrema resistenza. E questo è un punto fermo, sebbene Mohamed al Gasri, portavoce militare di Misurata, dice che “Sirte sarà liberata in pochi giorni, non settimane” (ad al Gasri piacciono i riflettori, e infatti ha anche ricordato che la loro offensiva è appoggiata pure da un piccolo gruppo di forze speciali inglesi e americane). Sono proclami, ma come scrive il Nyt la “rapida offensiva ha smentito le aspettative e rovesciato i calcoli strategici occidentali”.

IL FUTURO DELL’IS LIBICO

Gli analisti, come Alexander de Mello (su Twitter), cominciano a pensare che quelli rimasti in città siano un gruppo di anime sacrificali che i comandati libici (cioè: che si trovano in Libia, anche se magari sono sauditi, iracheni, tunisini) dello Stato islamico hanno lasciato a Sirte per combattere la battaglia finale. Uno scontro di cui i baghdadisti avevano già capito l’esito – negativo – e per questo potrebbero aver preferito disperdersi, probabilmente verso sud; in questo l’azione di inizio maggio ad Abu Grein contro i misuratini che si stavano preparando all’offensiva sarebbe stata un diversivo per nascondere la fuga dei convogli. La fascia meridionale libica, la provincia del Fezzan, è un’area senza legge. Non rientra di fatto nelle due amministrazioni di est e ovest, è una zona tribale dove i clan locali contano molto di più d’ogni altra cosa, ha un’estensione geografica ampia i cui confini con Niger e Ciad si confondono nel deserto. Sono rotte battute dal contrabbando e da vari raggruppamenti islamisti (come l’Aqim, la filiale qaedista del Maghreb). Un luogo dove nascondersi non è difficile. Da là sarebbero anche più comodi i collegamenti con la provincia nigeriano dello Stato islamico (ex Boko Haram). Il procedere della battaglia restituirà le dimensioni numeriche dell’IS: quanti dei circa cinquemila baghdadisti stimati dalle intelligence occidentali ce n’erano realmente? Quanti sono i sopravvissuti? Quanti erano rimasti a Sirte e quanti fuggiti? Le domande successive, e più importanti, saranno sul chi, sul dove e sul come: tracciando le rotte e chi le ha guidate si potrà capire meglio se lo Stato islamico in Libia ha preferito allo scontro frontale disperdersi strategicamente e creare una struttura volatile clandestina, più indirizzata magari alle attività terroristiche.

 (Foto: Misrata Tv, soldati misuratini abbattono la forca dell’IS sulla rotonda all’ingresso di Sirte)



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