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Perché Renzi e il Pd sono a un bivio

La polverizzazione dei partiti attuali, il successo del M5S in alcune città tra cui Roma e Torino, e di de Magistris a Napoli, avvenuti nelle ultime elezioni amministrative si spiegano anche coi negativi fattori finanziari, fiscali, socio-economici connessi all’azione del governo Renzi. Provvedimenti che hanno accresciuto il livore e il rancore della gente comune, disincantata e insoddisfatta, che ha deciso come atto di ribellione di favorire movimenti di opposizione al governo o di astenersi.

Tutto però rimane nella confusione se non si va indietro di qualche decennio. La fine dei partiti storici, consumatasi negli anni 1992-93, per mano di alcuni gruppi di magistrati, prestatisi volentieri a supportare le mire di poteri economici e finanziari interni e stranieri, il cui disegno finale era l’annientamento del “pentapartito” (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli), non fu un evento causato da chissà quale sfacelo economico-finanziario o da quali atti eversivi dei governi di quell’epoca. Era il sistema economico italiano, costruito in cinquant’anni di democrazia, a creare problemi ai potenti gruppi del potere finanziario di origine anglosassone, che non amavano il modello italiano di economia mista, benefico toccasana, invece, per il nostro Paese e talvolta esempio per altri popoli. Un paradigma che metteva in forse le ragioni delle economie liberiste che ormai dominavano nel mondo, volute e sostenute da Ronald Reagan negli USA, e da Margaret Thatcher in Inghilterra.

Cambiata la legge elettorale, attraverso i referendum di Mario Segni, e individuati come successori per i nuovi governi gli antichi eredi dello sclerotizzato partito comunista italiano, si portò a compimento la congiura di palazzo che disarcionò il pentapartito. Il disegno riuscì parzialmente, visto che nel 1994 Berlusconi sorprese tutti vincendo le elezioni, ma durò pochi mesi. Ci fu il breve intervallo del governo Dini che preparò l’arrivo di Prodi e degli ex falce e martello. Vedere i comunisti di Occhetto, che per cinquant’anni avevano cantato “bandiera rossa”, inneggiato al potere della classe operaia sostenere politiche liberiste è stato il più grande equivoco della storia in Italia e, perché no, un grande trauma per la base comunista. Un partito nato, cresciuto e pasciuto intorno alla fabbrica e che aveva come punto di riferimento la fabbrica stessa e gli interessi degli operai non poteva in modo sbrigativo e camaleontico cambiare identità e passare a frequentare i salotti buoni della borghesia italiana. Il vecchio elettorato comunista iniziò a sbandare e la classe dirigente, visto il travaglio in atto, dovette strappare più volte l’etichetta, fino ad arrivare al Partito Democratico, miscuglio di varie espressioni: oltre agli ex comunisti, c’erano la sinistra democristiana, i liberali, i verdi, i radicali e vari cespuglietti. L’equivoco rimase sotto traccia, ma persisteva. Il Pd funzionava perché si reggeva su due elementi-collante che lo tenevano in piedi: l’antiberlusconismo e la gestione del potere. Visse bene e in pace per lunga pezza, passando per Napolitano, D’Alema, Veltroni, Fassino, Rutelli, Finocchiaro, Zanda, Bersani e tanti altri.

C’è stata poi la crisi del berlusconismo e l’arrivo di Grillo (inutile soffermarsi sull’esperienza breve di Mario Monti) che irrompendo sulla scena politica ha provocato disorientamento, seminando vere e proprie crisi di panico nel Pd, che per arginarle è stato costretto a fare causa comune con svariate espressioni del centrodestra. E’ stato così per Enrico Letta. Ancor di più per Matteo Renzi, il quale vinte le primarie nel suo partito, ha preteso traumaticamente di sostituire il suo predecessore al governo, procurando altri rancori, altri equivoci, altri dissapori. Come poteva essere diversamente? La vecchia classe dirigente ex comunista ha usato la sperimentata tattica che le consentiva di campare bene, come avvenne con Prodi: a te la presidenza del governo a noi il potere, mise cappello anche su Renzi. I conti purtroppo sono stati fatti senza l’oste. Il giovane fiorentino una volta diventato segretario del partito e presidente del consiglio ha ritenuto di essere autosufficiente, si è smarcato dai vecchi arnesi comunisti, ma solo in parte, riproducendo l’equivoco vecchio-nuovo. Ha fatto capriole con doppio salto mortale per mantenere forza e prestigio, ma senza consenso in politica è quasi impossibile, nonostante tutto. Non a caso, pur avendo diffuso ottimismo a piene mani, contrastando e sminuendo il M5S, l’avversario vero di Renzi, gli elettori hanno insistito nell’assegnare fiducia agli esponenti pentastellati e a punire il Pd in tutta Italia. Alla fine Renzi si è trovato a fare i conti con la bruciante sconfitta, che si chiama Torino, Roma, Napoli, Trieste, Sesto Fiorentino, solo per indicare alcune città.

Il Pd in queste condizioni, perdurando le ambiguità e la doppiezza di diversi esponenti al suo interno, è destinato a vivacchiare o, peggio ancora, a scomparire. Allora che fare? Renzi è a un bivio, deve scegliere per risolvere definitivamente i vecchi e storici equivoci di origine comunista che si porta dietro, perché in sostanza di questo si tratta: associare i suoi oppositori interni alla gestione concreta del partito o rompere con nettezza con loro, avviando un moderno processo di costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra socialdemocratica. Tertium non datur. Rimanere nel guado non serve a Renzi, non serve al Pd, non serve al governo, non serve soprattutto all’Italia.



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