I funzionari del Quartetto per il Medio Oriente, Lega Araba e altre venti nazioni hanno partecipato giovedì a un incontro organizzato dalla Francia per discutere della pace tra Israele e Palestina, uno dei principali, incarniti dissidi della regione. La soluzione a due Stati “è in grave pericolo”, “dobbiamo agire in fretta”, ha detto il ministro degli Esteri francese Jean-Marc Ayrault in conferenza stampa alla chiusura dell’incontro. Un impegno forte quello intrapreso da Parigi, su cui tuttavia c’è poco ottimismo, come hanno riportato i corrispondenti della BBC: i palestinesi hanno accolto con favore l’iniziativa, mentre Israele l’ha respinta (e, aggiunge Aaron David Miller, vice presidente del Woodrow Wilson Center in un post sul blog Washington Wire del Wall Street Journal, “nominare Avidgor Liebermann ministro della Difesa sigilla una porta che era già chiusa”). I due paesi non erano presenti. Gerusalemme continua a chiedere che se si vuol far qualcosa serve pressare Abu Mazen affinché si impegni in colloqui diretti e non in operazioni sponsorizzate per far passare la proposta saudita del 2002, e addirittura il direttore del ministero degli Esteri israeliano Dore Gold ha paragonato questo genere di iniziative agli accordi di Sikes-Picot – quelli che nel 1916 scolpirono il Medio Oriente sulla base delle volontà delle potenze coloniali.
PARIGI L’AMERICANO
Parigi tuttavia mobilita le principali potenze mondiali e le invita a un’iniziativa internazionale di primo piano, su un tema cruciale ma non caldissimo, raffreddato per altro da tutte le altre crisi regionali (Siria, Iraq, Yemen), e continua le sue iniziative globali, approfittando di una flessione dell’attività americana, che non riguarda solo la questione israelo-palestinese, da cui si è tirata fuori al crollo dei colloqui nel 2014, dopo che Barack Obama aveva messo la pace in cima alla lista delle priorità sugli esteri, ma riguarda l’intera fase temporale che la Casa Bianca sta vivendo, quella conclusiva dell’Amministrazione, che richiede impegno sì, ma nel tenere al minimo i rischi su operazioni scivolose. Anche per questo ora i palestinesi si sentono più tutelati da diverse cancellerie europee che da Washington. Inoltre Fatah, il partito milizia di Mazen, ha ricominciato con gli attentati, e gli Stati Uniti hanno un po’ raffreddato i rapporti anche come bilanciamento con Israele, ferito dopo la firma del deal nucleare che ha riqualificato l’Iran, nemico esistenziale, che ha portato al massimo la crisi di dialogo già legata alla freddezza dei rapporti tra i rispettivi leader.
SPONDE AL CAIRO
La Francia non gioca da sola, ma trova una sponda importante al Cairo, dove l’Egitto del presidente Abdel Fattah al Sisi è ormai un alleato classico di Parigi, un’intesa rafforzata anche dalla forte partnership commerciale legata anche alla vendita di armamenti francesi. Il 17 maggio il presidente egiziano, con un discorso trasmesso dalle televisioni di stato si era proposto come mediatore tra israeliani e palestinesi: dichiarazioni arrivate durante la festa della Nakba e contemporaneamente all’annuncio di Parigi sul rinvio della conferenza che si è poi tenuta due giorni fa, ma che era in programma per il 30 maggio (era stata spostata per una defezione del segretario di Stato americano John Kerry). Da notare che mentre Israele aveva subito rifiutato l’iniziativa francese, aveva invece accolto positivamente quella egiziana; ci sono rapporti buoni in questo momento tra il governo israeliano e l’Egitto dei generali, finalizzati soprattutto alle operazioni congiunte anti terrorismo a cavallo del Sinai; il Cairo ha per esempio fatto in modo di far eleggere l’ex ministro degli Esteri egiziano Ahmed Aboul Gheit a segretario generale della Lega Araba, un diplomatico da sempre considerato “amico di Israele”. Ciò rende più probabile l’ipotesi di un coordinamento con Israele prima dell’annuncio dell’iniziativa egiziana. Domenica 22 maggio una delegazione israeliana pare sia arrivata al Cairo per preparare il terreno per un incontro a tre, tra Sisi, Mazen e Benjamin Netanyahu: un dialogo diretto, proprio quello che secondo Gerusalemme sta mancando al processo di pace. Sisi ha tutte le necessità di accaparrarsi di nuovo il consenso internazionale: dopo essere stato dipinto come una specie di fulcro per l’equilibrio nell’area MENA, il suo governo è stato pesantemente colpito dalle accuse di soprusi e mancanza dei diritti, dispotico lo hanno definito inchieste di media globali come il New York Times, e vicende come quella dell’uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni ha sensibilizzato l’opinione pubblica occidentale e sfregiato l’immagine del paese. Il Cairo deve cercare di mostrare una faccia pulita, o ripulita, perché sa di avere in piedi importanti interessi economici che non devono rischiare di essere macchiati da questioni etiche – e lo sanno anche a Parigi.