Per commentare le gesta dei sindacati e degli studenti francesi contro la riforma del lavoro, promossa dal ministro El Khomri, versione transalpina del nostro Jobs Act, secondo i media nazionali, ma più vicina nei contenuti e nella sostanza alla riforma tedesca Hartz, il Manifesto ha rispolverato niente meno che Jean Paul Sartre, uno degli aedi del Maggio parigino. La Francia è sempre la Francia, e la fascinazione che esercita sugli intellettuali e sui media di casa nostra rappresenta una delle rare leggi di sociologia culturale che non risente delle ingiurie del tempo. Qualsiasi “lotta”, qualsiasi sciopero, qualsiasi presidio, anche il più sparuto, evoca in metafora al giornalista collettivo italiano medio l’eterna lotta della libertà contro il potere. Questo immaginario assalto alla Bastiglia, nutrito più di una conformistica e sentimentale infatuazione che di un ponderato esame delle circostanze storiche e politiche, è il riflesso pavloviano che genera molti dei servizi dedicati dai Tg nazionali agli eventi francesi.
Il fatto che i manifestanti non siano legioni o che alcune modalità di protesta non siano irreprensibili non vale a incrinare la certezza che un’epica battaglia tra il bene e il male si stia combattendo davanti a ogni raffineria e ai cancelli di ogni fabbrica e che, ovviamente, a essa vada dato il massimo risalto. La riprova che i fatti sono filtrati attraverso uno schematismo ideologico a dir poco sghembo sta in una notizia, o meglio in una “non notizia”, che pure un qualche interesse avrebbe dovuto rivestire per i media nazionali ma che invece non avete visto, e presumibilmente non vedrete neppure in futuro, “in onda sui nostri schermi”, come il bravo conduttore avrebbe detto un tempo: lo sciopero dei metalmeccanici italiani. Quelli che lavorano l’acciaio, costruiscono auto e producono elettrodomestici, e televisori, aerei, treni e metropolitane, fabbricano avanzati sistemi informatici e robotici, navi e satelliti, fino alle pentole in cui tutti i giorni si cucina. Sono quasi due milioni di lavoratori dipendenti che, guarda caso, pagano regolarmente le tasse e di loro non vi è traccia nella lista Falciani e nei Panama Papers.
Anche loro, come i lavoratori francesi benché per ragioni diverse, hanno protestato. Anche loro hanno invaso le piazze. A Milano, per dire, hanno sfilato in 12mila. Una mobilitazione pacifica, che si è ripetuta a cadenza regolare in tutte le regioni italiane, per chiedere di dare una svolta alle trattative sul contratto nazionale, impantanate da sette mesi. Non saranno chic, non avranno al seguito un codazzo di intellos, ma in cifre i metalmeccanici italiani valgono pur sempre due milioni di lavoratori e l’8 per cento della ricchezza prodotta ogni anno in questo Paese.
Fa niente, il giornalista collettivo, quello che magari si batte il petto per la “Repubblica fondata sul lavoro”, ma che del lavoro vero in realtà se ne impipa, ha emesso la sua sentenza. Con i fatti, per loro, Fim, Fiom e Uilm e i lavoratori che rappresentano sono fondi d’archivio, roba da documentario, un fotogramma in bianco e nero da tirar fuori quando c’è da fare retorica a buon mercato sui bei tempi andati o peggio quando qualcuno di loro disperato sale su qualche tetto di capannone. Ma per carità, “passare un pezzo” al Tg per dare voce alla loro protesta per un contratto, quello no, che così ci roviniamo lo share, e magari pure la reputazione. Per essere veramente à la page, allora, sotto con il nuovo Maggio, anche se siamo a giugno. Oppure, se siamo proprio a corto di idee, vai con il servizio sulle sfilate di cani e gatti (si è visto anche questo). Dicono che i sindacati abbiano i santi in Paradiso. Sarà, ma in redazione non si sono visti.
Fatto sta che i metalmeccanici, piaccia o no, ci sono. Il 22 giugno hanno organizzato nella loro sede nazionale a Roma una conferenza stampa in cui hanno annunciato un nuovo pacchetto di iniziative di protesta con l’obiettivo di rimettere in moto la trattativa sul contratto. Si parte con il blocco totale degli straordinari e un nuovo sciopero di 4 ore. Ma Fim, Fiom e Uilm intendono puntare anche sulla comunicazione. In due direzioni: verso la politica e verso i media. La prima è apparsa come minimo distratta negli ultimi tempi, anche se può invocare la circostanza attenuante delle elezioni amministrative. I secondi, beh, lo abbiamo detto. Ora hanno un’altra chance per dimostrare che le notizie, quando sono notizie, si danno. Sempre.