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La Russia sta tornando in forze in Siria discretamente?

Il 7 giugno Associated Press lancia la dichiarazione con cui il presidente siriano Bashar el Assad dice di voler liberare ogni centimetro del paese e di volerlo fare seguendo la strategia utilizzata a Palmyra, ossia nell’unica occasione che i russi hanno combattuto contro lo Stato islamico (che in realtà era in fuga); vittoria successivamente celebrata dallo storytelling del Cremlino come un simbolo dell’impegno profuso, pure grazie a un concerto andato in mondovisione. Sembra un dettaglio, una delle solite sparate propagandistiche del regime, ma può anche essere uno dei segnali laterali di un ritorno in forze della Russia in Siria, di cui si potrebbero vedere gli effetti anche a breve. Mosca potrebbe accedere a quella clausola lasciata aperta quando Vladimir Putin il 14 marzo annunciò la rimodulazione al ribasso dell’impegno russo: possiamo tornare indietro sulla nostra decisione e aumentare nuovamente la presenza se le circostanze dovessero richiederlo, aveva annunciato il presidente russo. Le circostanze, ora, lo richiedono, perché ad Aleppo i ribelli guidati dalla formazione qaedista al Nusra stanno avanzando nonostante il regime e i caccia russi stessi siano martellando con bombardamenti indiscriminati da giorni e a Raqqa gli Stati Uniti sono in pressione al fianco dei miliziani curdi, e dunque qui si apre anche uno scenario di concorrenza.

CONCORRENZA SU RAQQA

La situazione a Raqqa potrebbe essere il proxy principale utilizzato dal Cremlino per aumentare nuovamente l’impegno. Una coalizione che prende il nome di Syrian Democratic Force, e che comprende i combattenti curdi del Rojava e alcune fazioni arabe e siriache, si sta avvicinando da nordest la capitale siriana dello Stato islamico: nella discesa è aiutata dal punto di vista tattico e logistico (e forse anche in qualcosa in più, ma in via non ufficiale) da reparti delle forze speciali americane. I commandos statunitensi sono stati ripresi da alcune foto scattate da un freelance e poi pubblicate dall’Agence France Presse: i soldati erano praticamente in posa, e sembrava quasi che Washington volesse mettere la firma nella grande operazione su Raqqa, anche se il Pentagono ha parlato di atteggiamenti non consentiti (ma pare improbabile, vista l’esperienza e la preparazione di quel genere di militari: lo stesso fotografo ha poi raccontato su un blog di Afp di essersi stupito di tanta disponibilità). Quelle immagini erano un richiamo per Mosca? Avevano il senso di sottolineare la presenza e l’impegno americano, e ammonire i russi che stavano facendo poco contro lo Stato islamico? Non si saprà mai, ma a giudicare dai fatti il messaggio è stato recepito dal Cremlino: i governativi siriani della Liwa Suqur al Sahara, i Falchi di una specie di milizia d’élite che combatte al fianco dello spennato esercito regolare nelle operazioni più delicate, appoggiati dai raid aerei russi (e da diversi mezzi militari terrestri che Mosca ha elargito), sono entrati per la prima volta nella provincia di Raqqa dopo anni. Si stanno muovendo da sud-ovest, in direzione praticamente opposta a quella dei ribelli US-backed. Washington e Mosca sono in gara su chi arriverà prima alle porte del Califfato (anche se non c’è previsione di una campagna di conquista per gli americani, ma per il momento si tratta di un’offensiva di isolamento; Mosca invece non dà dettagli); da notare anche che le Sdf insieme alle Special Ops americane sono all’attacco anche a Manbij, estremo nordest del governatorato di Aleppo, area che è stata finora di pertinenza russa. Se Putin dovesse decidere di muovere massicci rinforzi in Siria, la carta “stiamo andando a prendere Raqqa e a sconfiggere il Califfo” è un argomento di sicuro valore politico, mediatico, propagandistico. Sulla strade per Raqqa, nei pressi dei reperti archeologici di Palmyra, simbolo per Damasco e per Mosca della pseudo-lotta all’IS, i genieri russi hanno creato anche un’altra ampia base di appoggio.

CONTROLLARSI A VICENDA

Sempre sulla rincorsa con gli americani: il 5 giugno è stato ripreso mentre volava sui cieli a sud di Aleppo, centinaia di chilometri ad ovest di Raqqa, un Tupolev Tu-95, riconosciuto dagli esperti nella versione da intelligence TU-142 del bombardiere strategico russo. È stata la prima volta che questo genere di velivolo e i suoi sofisticati apparati si sono visti sopra alla Siria. Un nuovo impegno, ma c’è pure una coincidenza: spesso i Bear-F (nome in codice Nato dell’aero) sono utilizzati per il pattugliamento in mare, e soltanto il giorno precedente, per la prima volta dal 2003, una portaerei americana, la Harry Truman, ha fatto da base di lancio per un attacco aereo in Medio Oriente dal Mediterraneo. Forse Mosca ha intenzione di controllare i movimenti americani, più che raccogliere dati per indirizzare i bombardamenti sui ribelli (che molto precisi e sofisticati non sembrerebbero: anche la scorsa settimana, a Idlib, più o meno dove è stato ripreso il velivolo, due ospedali sono finiti sotto alle bombe a grappolo dei governativi).

I NEGOZIATI STALLANO

Questa attività di controllo reciproco è in atto da mesi, se non da anni. Mosca e Washington come più volte si è detto usano il campo di battaglia siriano come terreno dove combattere una guerra indiretta. Stessa attività si muove ai tavoli diplomatici: la Russia, con il ridimensionamento formale sul teatro operativo, ha avuto la possibilità di muoversi più disimpegnata nelle trattative per risolvere la crisi. Le due potenze hanno cercato di costruire un negoziato sulla base del cessate il fuoco del 27 febbraio (tutt’ora formalmente in piedi, anche se la data di scadenza del 25 maggio prevista dal ministro della Difesa russo Sergei Shoigu è stata superata). Il piano prevedeva tregue locali, che avrebbero poi fatto da punti di espansione per allargarsi a macchia di leopardo e portare a soluzioni più ampie. Una strategia che però non sembra funzionare, anche perché in zone come Aleppo, per esempio, i ribelli hanno approfittato della relativa assenza russa per riamarsi (via Golfo) e avanzare contro i deboli soldati siriani. A tenere alta la lotta anche gli iraniani, che nonostante la moria di soldati e ufficiali, proseguono il sostegno a Damasco, anche attraverso le milizie sciite controllate. È anche questa presenza, la quale somma ideologia alla presenza già fortemente ideologizzata dell’Iran, che ha allontanato Mosca dall’alleanza con Teheran e portato i funzionari diplomatici di Mosca a cecare una partnership informale con quelli americani.

DISTRUGGERE AL NUSRA

Se la retorica dell’antiterrorismo sarà uno degli argomenti forti usati da Putin per aumentare nuovamente la presenza dei russi in Siria, in cima alla killing list più dell’Is ci finirà la Jabhat al Nusra. La formazione qaedista è diventata, per forza e coerenza (combatte contro il regime, senza altre costruzioni retoriche, per il momento), un riferimento per le fazioni ribelli anche moderate. Sono questi raggruppamenti pragmatici che stanno mettendo in difficoltà il regime ad Aleppo, Idlib, Jishr al Suqur. La Russia vuole colpirli, gli Stati Uniti non possono tirarsi indietro (perché considera JN un gruppo terroristico), ma preferiscono al momento concentrarsi sull’Is tralasciando la situazione delle fascia mediterranea. Per questo il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov in un’intervista pubblicata dal quotidiano Komsomolskaya Pravda il 31 maggio ha raccontato che Washington aveva chiesto qualche giorno in più rispetto alla scadenza fissata da Mosca per la tregua, ma che al Cremlino stavano per esaurire la pazienza e a breve si sarebbero mossi all’attacco contro chiunque avrebbe violato gli accordi, indipendentemente fosse iscritto o meno nella lista dei terroristi – notare che queste parole sono passate attraverso gli organi della disinformatia come Sputnik e tradotti in qualcosa di simile a “gli Stati Uniti vanno a Raqqa ma non vogliono colpire al Qaeda in Siria”.

PROVE CIRCOSTANZIALI

Sommare, dunque: Damasco è di nuovo nei guai nelle aree occidentali del paese, quelle care al regime e protette dalla Russia; gli americani si stanno intestando una campagna su Raqqa che potrebbe avere un valore altamente simbolico e su cui Mosca non vuole restare indietro; il processo di pace non porta (di nuovo) a niente di buono. Sono motivazioni valide per un nuovo ampliamento della missione militare russa in Siria. Prove circostanziali: i raid russi sono triplicati nell’ultima settimana come riporta l’International Study of War, le spedizioni di armamenti attraverso le navi del cosiddetto Syrian Express procedono con maggior vigore e al Monitor ha informazioni sull’arrivo discreto al porto di Tartous di circa 3000 paracadutisti e personale di coordinamento che aveva lasciato la base aerea di Latakia, da cui partiva il grosso dei bombardamenti prima della parziale rimodulazione. Pare, ma le fonti che lo rivelano non possono essere confermate, che siano arrivate in Siria anche altre unità scelte con il compito di compiere operazioni puntuali contro elementi di spicco delle fazioni combattenti ad ovest (sei uomini del forte gruppo ribelle Ahrar al Sham sono stati misteriosamente assassinati ad Idlib il 3 giugno, ma è probabile che sia soltanto una coincidenza). Magari non sarà una ripresa in grande stile, ma pare che una nuova fase dell’impegno strategico russo stia iniziando.

(Foto: википедия, tecnici militari russi armano un caccia alla base di Latakia)

 

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