Enunciata in termini generalissimi, la seconda legge della termodinamica afferma che il cosmo tende verso uno stato di caos totale. La misura del suo aumento implacabile è data da una grandezza che i fisici chiamano entropia. In parole semplici, può essere descritta come il grado di disordine di un sistema. L’entropia del sistema dei partiti italiano è ben descritta dal voto di domenica. Invidio, ha ragione Matteo Renzi, chi riesce a darne una lettura univoca, a estrapolarne un significato nazionale. Beninteso, il Pd è in affanno, e il logoramento del suo rapporto con le periferie urbane è evidente. Il centrodestra è vivo e vegeto, anche se scosso da laceranti divisioni interne. Il consenso dato dai romani e dai torinesi al M5S non è solo l’espressione della rabbia e della protesta contro corruzione e malaffare, ma è anche il sintomo di una volontà di cambiamento nel modo di amministrare le città. Ma da qui ad intonare il de profundis per il renzismo (anche nel caso in cui Stefano Parisi prevalesse su Beppe Sala a Milano) ce ne corre.
La verità è che il panorama della competizione politica locale appare lontanissimo dallo schema bipolare, a cui guardava l’impianto originario della legge che ha inaugurato l’epoca dell’elezione diretta del sindaco. Il dato prevalente è quello di una diffusa frammentazione interna, a ciascun schieramento e a ciascun partito. Con i candidati alla guida del governo locale protesi sul palcoscenico mediatico, e con i candidati alle assemblee consiliari protesi a spartirsi le spoglie del consenso micronotabilare.
Uno scenario in cui spicca proprio l’assenza di quella cosa che un tempo si chiamava partito. Che ormai ha scarsissima autonomia nei confronti del ceto elettivo che occupa largamente i suoi organismi dirigenti. Che stenta ad alimentare dal basso la partecipazione alla sua vita, la quale si comprime sempre più intorno alle scadenze elettorali, e finisce col ruotare intorno alle reti fiduciarie dei singoli candidati. Si tratta di un processo involutivo che lascia aperta una domanda cruciale per le sorti della politica nazionale. Con un premier ancora forte ma più isolato dopo i fasti dell’era della rottamazione, e con sindaci (e governatori) impegnati a difendersi dalla voracità dei gruppi di potere locali, tenere insieme neo-imperialismo del centro e neofeudalesimo della periferia rischia di diventare una missione impossibile. Né può bastare l’invio di un commissario a Napoli per rifondare quella “repubblica dei capi” che oggi è il Pd, e non solo nel Mezzogiorno.