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Le ultime novità sul trambusto del ’92 fra Amato, Mancino, Scalfaro e Scotti

Torno sulla formazione del primo governo di Giuliano Amato, costituito fra due stragi di mafia che costarono nel 1992 la vita ad altrettanti magistrati di prima linea nella lotta a Cosa Nostra, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per essere stato contattato da Michele Zolla, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, vice presidente della Camera e consigliere speciale del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro dal 1992 al 1999. Egli ha voluto cortesemente aiutarmi a ricostruire quei fatti sui quali Amato, ora giudice costituzionale, ha recentemente deposto, in una trasferta a Roma della Corte d’Assise di Palermo, impegnata da ben tre anni nel processo sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia. Un processo che prosegue imperterrito, con i suoi tempi, non certo veloci, nonostante due degli originari imputati eccellenti siano stati assolti per gli stessi fatti in processi paralleli, e di diverso grado, come solo in Italia può accadere per le cervellotiche regole della nostra giustizia, con la minuscola: l’ex ministro democristiano Calogero Mannino e il generale dei Carabinieri Mario Mori.

La deposizione di Amato, come ho già riferito qui il 19 giugno scorso, non ha soddisfatto l’impaziente pubblico ministero per i troppi “non so” e “non ricordo” oppostigli dal testimone, arrivato a un certo punto a paragonarsi da solo sarcasticamente allo “smemorato di Collegno”. Non è andata meglio, d’altronde, con la testimone successiva: la magistrata Liliana Ferraro, vice direttore degli affari penali del Ministero della Giustizia in quel dannato 1992.

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Le “dinamiche democristiane” genericamente indicate da Amato per spiegare ai giudici di Palermo l’avvicendamento da lui disposto nel 1992, su richiesta appunto dell’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani, alla guida del Ministero dell’Interno fra Enzo Scotti e Nicola Mancino erano ben note al Quirinale. Dove il democristiano, pure lui, Scalfaro non firmava decreti di nomina dei ministri propostigli dal presidente del Consiglio senza conoscerne e condividerne le ragioni.

 

Ebbene, come Zolla assicura di ricordare bene, l’avvicendamento al Viminale nacque, in occasione della formazione del primo governo di Amato, non da un giudizio sull’attività svolta da Scotti, e tanto meno da un presunto interesse a sostituirlo con un ministro meno intransigente nella lotta alla mafia, e funzionale quindi a presunte trattative per contenerne le stragi, ma dal bisogno di spostare dalla presidenza del gruppo democristiano al Senato Nicola Mancino per farla occupare da Antonio Gava: il potente capo della maggiore corrente del partito e capogruppo uscente della Camera, già ministro dell’Interno nel 1990, quando un ictus lo aveva costretto alle dimissioni e a una pausa. Si tratta dello stesso Gava morto nel 2008 e accusato tre mesi fa dal boss della camorra Raffaele Cutolo, in un interrogatorio in carcere eseguito da magistrati romani, di avere bloccato nel 1978 un’operazione di malavitosi organizzata dal suo braccio destro Enzo Casillo, ucciso nel 1983, per liberare Aldo Moro dal covo romano in cui lo tenevano prigioniero i brigatisi rossi.

Mancino, della corrente di Ciriaco De Mita, reclamò e ottenne proprio il Ministero dell’Interno, da dove Scotti, che vi era arrivato dopo Gava, fu trasferito alla guida del meno potente ma più prestigioso Ministero degli Esteri. Da cui però si dimise rapidamente per allinearsi all’incompatibilità introdotta nella Dc fra mandato parlamentare e di governo, preferendo tenersi l’immunità parlamentare.

A cose fatte, Scotti si convinse, ma soprattutto convinse i magistrati inquirenti di Palermo, che a costargli il Viminale non furono le “dinamiche interne” al proprio partito, ma la sua intransigenza nella lotta alla mafia. Una convinzione, francamente, un po’ eccessiva, a dir poco, per costruirvi sopra un processo delle dimensioni, della durata e delle complicazioni come quello di Palermo, che ha prodotto, fra l’altro, nel 2012 un clamoroso conflitto di competenza fra l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e La Procura, che lo aveva “casualmente” intercettato al telefono con Mancino, fra gli indagati e poi imputati.

 

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Un’altra circostanza che Michele Zolla ha voluto precisarmi è il presunto “scherzo da prete” attribuito a Scalfaro da Marco Pannella in una telefonata a Martelli che lo stesso Martelli ha riferito alla Corte d’Assise di Palermo. E che gli fece rischiare, sempre nella formazione del primo governo Amato, la conferma come Guardasigilli.

 

Mentre Martelli sostiene che in un incontro a tre al Quirinale fu Scalfaro a prospettare a lui e a Scotti le nomine a presidente e vice presidente del Consiglio per sottrarsi alla soluzione del governo Craxi concordata fra la Dc e il Psi, Zolla ricorda bene lo stupore manifestatogli dal capo dello Stato per le sostanziali autocandidature che i due ministri erano andati a proporgli. Uno stupore che Scalfaro peraltro ebbe poi modo di manifestare non a Pannella, che pure era allora in buonissimi rapporti con lui per averne sostenuto l’elezione al Quirinale, ma al deputato socialista Salvo Andò, nominato successivamente ministro della Difesa.

Fu quindi Andò a riferirne poi a Craxi, che ovviamente non gradì, al pari del segretario della Dc Forlani. E in effetti il leader socialista programmò una nuova destinazione ministeriale per Martelli, alla quale rinunciò -come lo stesso Craxi mi raccontò confidenzialmente- quando il Guardasigilli gli chiese di essere lasciato dov’era per proseguire l’azione anti- mafia condotta al Ministero della Giustizia col povero Giovanni Falcone, così barbaramente ucciso a Capaci. A interrompere l’anno dopo il lavoro di governo di Martelli furono invece i magistrati di Milano coinvolgendolo nell’inchiesta sul finanziamento illegale della politica. Il capo di quella Procura, Francesco Saverio Borrelli, avrebbe poi riconosciuto all’esponente socialista il merito di essere stato fra i migliori, se non il migliore ministro della Giustizia.


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