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Che cosa si dice tra i vertici militari Usa della Libia

Almeno trentaquattro miliziani misuratini sono rimasti uccisi martedì (altri cento feriti) durante gli scontri con lo Stato islamico a Sirte, la città costiera libica in cui i baghdadisti avevano costruito la più grande roccaforte statuale extra Siraq. Si tratta del colpo più duro subito dall’offensiva lanciata il mese scorso da alcune delle principali fazioni fedeli al nuovo pseudo-governo, non ancora del tutto insediato a Tripoli (e guidato da Fayez Serraj sotto l’egida delle Nazioni Unite). I fedeli di quello che è da mesi in attesa di diventare il Gna, il Governo di accordo nazionale che dovrebbe mettere pace alle divisioni tra est e ovest del paese (ma che non ci riesce: il 13 giugno per l’ottava volta è stata la votazione legittimante con cui il parlamento esiliato a Tobruk deve dare avallo definitivo e superare le divisioni), hanno stretto gli uomini dello Stato islamico in una sacca sempre più stretta nell’est di Sirte, ma ora la battaglia è tutt’altro che finita.

Martedì, poche ore prima della strage che ha prodotto anche un centinaio di feriti, il Gna aveva annunciato che la “battaglia decisiva” a Sirte si sarebbe svolta a breve, ma, come ha commentato  il portavoce del Pentagono Peter Cook, “è una situazione complicata”, sebbene gli Stati Uniti “aspettino con ansia” che il Gna metta radici e si augurano che lo faccia più presto. Le due cose potrebbero sembrare scollegate, ma se le forze fedeli a Serraj conquisteranno completamente Sirte, allora riceveranno gli onori nazionali, circostanza che porrebbe le altre milizie combattenti orientali, quelle guidate dal generale-freelance della Cirenaica Khalifa Haftar, che continua a guerreggiare a Derna e Bengasi secondo una propria agenda, in una condizione di inferiorità rappresentativa e dunque la politica che si collega alle sue gesta avrà minor peso, e in definitiva sarà costretta ad avallare il governo promosso dall’Onu.

“Dunque, qual è il piano americano per arrivare a tutto questo?”, si chiede Foreing Policy, visto anche che l’inviato speciale della Casa Bianca per la Libia, Jonathan Winer, il 15 giugno s’è presentato in Commissione esteri al Senato per chiedere il placet su un progetto economico di sostegno al Gna. La realtà è che un piano non c’è, e a dirlo non è una speculazione giornalistica, ma, durante un’audizione al Senato, è stato il tenente generale dei Marines Thomas Waldhauser, ossia l’uomo che la Casa Bianca ha individuato come successore di David Rodriguez per la guida di Africom, il comando operativo strategico che gestisce tutte le attività del Pentagono in Africa, e dunque anche in Libia; per capirci, è da lì partito l’ordine ai due F-15 decollati da Lakenheath, nella provincia inglese del Suffolk, che hanno eliminato il 13 novembre del 2015 (lo stesso giorno dei sanguinosi attentati di Parigi) il capo di tutto lo Stato islamico in Libia, Abu Nabil al Anbari, aka Abul Mughirah al Qahtani.

Non è un buon segnale se uno dei top generali americani, destinato a breve ad incarichi apicali, si fa portavoce di una dichiarazione del genere: pressato dalle domande del falco-mai-domo John McCain, chairman dell’Armed service comittee del Senato, ha detto che sulla Libia non è “a conoscenza di qualsiasi grande strategia globale” (lunedì l’Unione Europea ha confermato l’ampliamento della missione navale “Sophia” alle acque del Mediterraneo libico, anche nell’ottica di contenimento al flusso illecito di armi, ma non è a questo che il generale americano pensa).

Non bastasse Waldhauser ha pure aggiunto di non essere d’accordo con la linea voluta da Barack Obama, secondo cui non devono essere condotti raid aerei in Libia, ha marcato sulla necessità più uomini a terra nel paese (per ora ci sono solo poche forze speciali), e poi quando l’altro falco del comitato, il senatore repubblicano Lindsey Graham gli ha chiesto se la volontà di Obama avesse un senso c’è tornato di nuovo e ha replicato che non ce l’ha. I militari americani stanno perdendo la pazienza, e non solo sulla Libia, decine di funzionari del dipartimento di Stato firmano una lettera per chiedere di attaccare il regime in Siria, i falchi intorno a Hillary Clinton cominciano a scalpitare: non c’è un gran clima a Washington, e tutto è esasperato dalla paura/possibilità che il prossimo presidente sia uno che ritiene la Nato una “roba anacronistica”.

Inotte ci si è messo anche il popolarissimo vice presidente Joe Biden, che in un’intervista ha dichiarato di aver previsto l’avvento dell’instabilità in Libia, la disintegrazione del paese e l’attecchimento del radicalismo, già nel 2011, e per questo ha ricordato di aver suggerito a Obama e a Clinton, ai tempi influente segretario di Stato fortemente convinta della bontà della missione anti-Gheddafi, di non intervenire.

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