Nei ricordi di Augusto Guido Bianchi, che fu una delle colonne del Corriere alla fine dell’Ottocento, l’arrivo di Luigi Albertini al giornale fu accompagnato da sospetti e leggende. Albertini nella primavera del 1986 aveva esordito con una sorta di reportage sulle nozze dello Zar, e non era – allora come oggi – così frequente che un neoassunto, per giunta arrivato come segretario di redazione, quindi con una funzione tecnico-amministrativa, venisse mandato da Torelli Viollier, se un servizio agognato dai compunti e silenti redattori, non privi però di maliziosi pensieri. In realtà, si trattò di un debutto in tono minore, non di grandissima originalità. E nessuno dei giornalisti del Corriere pensava che quel giovane marchigiano, altezzoso e ben vestito, avrebbe fatto una grande carriera. La diffidenza nei suoi confronti, era totale. Il fatto che provenisse da una pubblicazione di settore, prestigiosa ma pur sempre minore, risultava un’aggravante insopportabile.
Albertini era stato segnalato a Torelli da Luigi Luzzatti, il quale però aveva parlato prima, e non a lungo, con un proprietario, il senatore Ernesto De Angeli. E ciò bastava a renderlo antipatico, a farlo apparire espressione di un potere economico odioso e, nella fattispecie, bancario. Quanto di peggio, anche all’epoca. È come se oggi io scegliessi, tra i miei più diretti collaboratori, il responsabile della rivista dell’Albi, l’Associazione bancaria e gli affidassi l’economia. Mi farebbero a pezzi. Improponibile. Con tutto il rispetto per l’universo, composito e autorevole, della letteratura creditizia che peraltro io non leggo. Insomma, Albertini era un intruso, giovane (aveva ventisei anni), arrogante, il tanto che bastava per guadagnarli le ostilità di un mondo, quello giornalistico, che mescola volentieri superficialità e ignoranza. Avessero guardato meglio il suo curriculum non avrebbero avuto nulla da dire: era stato assistente di Cognetti de Martiis all’Università di Torino aveva già pubblicato un libro con una ricerca sulle otto ore di lavoro, aveva fatto un lungo soggiorno di studio a Londra. un brillante presuntuoso, arrivista. E vi era una seconda ulteriore aggravante. Venendo al Corriere, Albertini non aveva rinunciato alla responsabilità di “Credito e Cooperazione”, che avrebbe tenuto fino all’89 per poi cederla allo stesso Luzzatti, prezioso collaboratore della sua lunga e storica direzione del Corriere. L’esperienza precedente gli fu utile e fu utile anche al Corriere. Come segretario di redazione, ovvero come responsabile organizzativo e amministrativo del giornale, si conquistò la fiducia della proprietà e venne chiamato a gestire contratti di fornitura e pubblicitari. Dopo l’allontanamento do Torelli, in seguito alla scelta di De Angelis e Pirelli di imprimere una linea più governativa al giornale, Albertini entrò subiot in polemica con il successore Oliva, del quale di lì a pochi avrebbe preso il posto.
In una lettera a Torelli (lo chiamavano onorevole signor Torelli!) nella quale si dettagliavano tutti i problemi economici del giornale, si evocava la necessità di un’edizione notturna unica, con l’uscita al mattino, e si parlava a lungo della giusta remunerazione del capitale, tra profitto sostenibile e investimenti vitali, emergono a mio giudizio molti degli insegnamenti di Luzzatti. E sullo sfondo si intravede quell’idea di società mutualistica liberale che non ebbe purtroppo grande successo in un Paese in cui la storia del movimento cooperativo sarà imperniata nella contrapposizione tra cattolici e socialcomunisti. Un bipolarismo, spesso collusivo, del quale avremmo fatto volentieri a meno. Non sappiamo se Albertini, acquistando poi le carature della proprietà che perderà con l’avvento del fascismo, pensasse all’attività editoriale come a una proprietà diffusa sul modello ideato da Schulze-Delitzsch per le banche popolari. Di sicuro condivideva l’orientamento di Giacomo Raimondi, liberale illuminato e oppositore interno di Oliva, che il 3 ottobre del 1899 in un articolo dal titolo “Le contraddizioni del progresso”, pubblicato sul Corriere, denunciava come vetusto e antidemocratico l’ordinamento bancario.
L’articolo terminava sostenendo che il socialismo non era altro che una morbosa degenerazione della democrazia. Albertini da liberale autentico, poco incline ai compromessi, autoritario e quasi dispotico nella gestione monocratica di un giornale, riconosceva le virtù della cooperazione e della proprietà diffusa, diffidava dalla mancanza di gerarchie che assegnassero precisi ruoli e relative responsabilità, ma sapeva che i legami sociali più forti sono frutto di una proprietà condivisa, che può degenerare quando i capi non sono all’altezza del compito, anche morale, loro assegnato e lo spirito solidale e mutualistico anziché accompagnarsi all’efficienza si tramuta in opache complicità. Lezione attuale e non solo per il mondo bancario, cooperativo e non.