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Perché contro Isis serve anche una guerra culturale (l’Occidente ne è consapevole?)

Lingotto, 5 stelle, molestie

Proprio mentre i giornali celebrano da qualche giorno l’arretramento del cosiddetto Califfato, e ne prevedono a breve la definitiva sconfitta militare, a Orlando, negli Stati Uniti, un terrorista compie una strage in un locale frequentato da omosessuali siglandolo preventivamente con la sigla dell’ISIS. Statene certi: nelle prossime ore questo elemento verrà ridimensionato.

Si dirà che l’autore del tragico gesto era un folle, che era omofobo e che la colpa di quanto accaduto sta tutta nel fatto che in America girano troppe armi. Quasi che la follia non sia un connotato dell’ideologia jhiadista, che l’omofobia non ne sia un elemento centrale e quasi che, infine, una strage simile, quella del Bataclan, non sia avvenuta in un Paese che ha una legislazione sul porto d’armi molto diversa da quella americana.

D’altronde, la cultura gay, quella che celebrava i suoi riti nel locale di Orlando, e la cultura del rock “diabolico”, che li celebrava nel locale parigino, oltre ad avere punti di sovrapposizione o convergenza, sono due portati della modernità occidentale, che è il vero obiettivo a cui mira l’ideologia jahidista. Nei confronti della quale però noi occidentali spesso non riusciamo ad avere un atteggiamento distaccato e oggettivo che ci porti a considerarla per quello che veramente è, cioè la negazione di tutto ciò che noi siamo o siamo divenuti. Sotto sotto, anche se non sempre osiamo confessarlo, molti di noi pensano che il jihadismo vada non giustificato certo, ma compreso sì, nelle sue ragioni di fondo. La radicalizzazione islamica nascerebbe per i nostri errori e le nostre colpe, per le “disuguaglianze” di cui siamo causa oggi e lo siamo stati storicamente, in primis per le conseguenze dell’aborrito colonialismo.

Certo, lo Stato islamico arretra, ma Orlando ci insegna che non arretrerà facilmente l’ideologia che ne costituisce il background. Per due motivi. Il primo: perché quell’ideologia può armare la mano di chiunque vi faccia riferimento, senza che ci sia bisogno di una affiliazione in senso forte, come avveniva nel vecchio terrorismo politico (a ragione i jahidisti possono esultare sul web e ascriversi il massacro di Orlando: per loro l’autore era “uno di loro” già per il solo fatto che ha dichiarato di esserlo e di aver compiuto un atto perfettamente coerente con la loro ideologia). Il secondo: perché l’Occidente è vittima della mancanza di un pensiero critico che sappia andare oltre il pensiero preconfezionato e vincente del progressismo globale.

Per questo pensiero, che domina, anche per pigrizia e opportunismo, i mezzi di comunicazione di massa, è già tutto stabilito: il bene sta da una parte, il male dall’altro. Se poi gli ex popoli colonizzati esprimono dal loro seno una cultura di morte, la colpa sotto sotto è nostra: non siamo stati forse noi i biechi colonizzatori e loro le nostre vittime? Una riconsiderazione più seria di quello che è stato il colonialismo, nel male ma anche nel bene, una sua contestualizzazione storica, sarebbe veramente opportuna. Ma non è questo solo il problema. La questione sta invece nella capacità di chiamare le cose con il proprio nome, senza soggiacere a vetusti automatismi di pensiero.

Ancora una volta, una strage ci chiama a un’assunzione di responsabilità: se crediamo in certi valori, dobbiamo individuare con sicurezza il nemico e ingaggiare una guerra culturale contro di esso (mettendo al bando la cattiva cultura che alligna al nostro interno).

Dobbiamo farlo, prima che sia troppo tardi.

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