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Ultima chiamata per Matteo Renzi

Il presidente del Consiglio potrà davvero permettersi di riprendere la rottamazione, usare nel partito il “lanciafiamme” e dissipare la percezione sempre più diffusa di un Pd “macchina di occupazione del potere”? E, soprattutto, ciò basterà ad invertire la tendenza al distacco e alla disillusione verso l’operato del governo chiaramente evidenziata nella recente tornata elettorale?

La sfida appare assai ardua se valutata al cospetto dei numeri al Senato che – giocoforza – imporranno nuove e più pesanti mediazioni in un momento di difficoltà del premier.

Ma altre sembrano poter essere le difficoltà determinanti per Matteo Renzi: innanzitutto quella di ritrovare l’entusiasmo della prima rottamazione e coniugare quello spirito sbarazzino, irriverente, sfrontato con l’impronta rassicurante e di totale positività che ha voluto dare – da sindaco d’Italia – al suo ruolo istituzionale.

A ciò si somma quello che – nella percezione comune – appare lo scoglio più irto, ossia l’enorme mole di ammaccature che vicende pesantissime come quella di Banca Etruria o di Veneto Banca  -ma non solo – hanno comportato per esponenti di spicco del cosiddetto “giglio magico” e che – lo si voglia o no – hanno sfregiato e continuano a segnare l’azione del governo.

“Macchina indietro” è ormai un comando indisponibile per Renzi, e l’appeal del Golden Boy sembra aver esaurito la spinta propulsiva.

Molto tempo (quello che adesso manca) si è perduto in dibattiti sterili, cambi di strategia, aggiustamenti d’obiettivo e molte occasioni sembrano irrecuperabili. Resta forse un unico tentativo: la rivoluzione del quadro politico.

Quel partito nuovo che molti reputano morto e sepolto o, meglio, abortito, (e che altrettanti attendono da tempo) potrebbe invece rappresentare quell’iniezione ricostituente di cui Renzi – alleggerito della zavorra di parte del giglio magico – ha bisogno per rimotivare il suo elettorato trasversale, procedere ancora più speditamente sulla strada delle riforme (soprattutto economiche con un abbattimento sostanziale delle tasse) e presentarsi alla scadenza referendaria di ottobre con le carte in regola.

Il Pd, per la sua storia, non potrà mai divenire (e le parole dell’alleato Sacconi lo testimoniano chiaramente) la casa del ceto moderato e riformatore italiano (quello che da sempre invoca il cambiamento del Paese e che ora gonfia le vele dei 5 stelle) e, quindi, non potrà mai ambire a divenire il fulcro del sistema politico nazionale.

O il premier-segretario riuscirà in questi pochi mesi che lo separano dal referendum costituzionale a cambiare radicalmente registro, oppure sarà costretto – con la coda tra le gambe – a tornare su molti dei suoi passi ad iniziare dalla modifica della legge elettorale. Modifica che ormai gli alleati pretendono pena la messa in crisi dell’esecutivo.

Ma non tutto il male viene per nuocere. Renzi è ad un bivio: o riuscirà ad imporre un nuovo progetto comune “aperto”, “trasversale” ed “inclusivo” (e la strada del nuovo contenitore potrebbe essere una soluzione anche in vista di un listone “per l’Italia”), oppure rischia seriamente di andare a sbattere.

Per Renzi vi è un unico vitale imperativo: uscire subito dall’angolo e tentare di far saltare il banco.

Il tempo stringe e l’urgenza del momento detta le mosse: superare il PD per un nuovo soggetto più inclusivo (anche in questo caso le parole di Chiamparino appaiono ultimative: “Occorre allargare gli orizzonti“), “sfrondare” il giglio magico divenuto orami troppo ingombrante e “rivitalizzare” il Governo magari anche con il passo di lato di ministre influenti.


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