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Tutte le cose turche di Erdogan (non solo sugli armeni)

Alla Turchia non si chiedeva molto perché la sua richiesta di ingresso nell’Unione europea venisse soddisfatta. Oltre al rispetto dei parametri economici, le istituzioni comunitarie ritenevano indispensabile da parte del governo di Ankara della priorità del riconoscimento dei diritti umani, delle prerogative delle minoranze etnico-culturali, del pluralismo politico. In questo quadro di obblighi rientrava anche l’ammissione, più volte sollecitata, del genocidio degli armeni perpetrato dall’agonizzante impero ottomano tra il 1915 ed il 1916. Avendo disatteso sostanzialmente i primi punti degli obblighi che si erano impegnate ad onorare, le autorità turche, dopo le repressioni seguite alle proteste di Gezi Park, hanno accentuato la loro lontananza dall’Europa. La progressiva islamizzazione del Paese promossa Recep Tayyip Erdogan, con il quale hanno rotto tanto l’ex-presidente della Repubblica da lui voluto al vertice della Repubblica, Abdullah Gul, che il primo ministro Ahmet Davutoglu per l’insofferenza verso l’uomo forte di Ankara impegnato nel promuovere una riforma costituzionale in senso fortemente autoritario, non ha certo favorito l’avvicinamento a Bruxelles che pur sembrava a portata di mano quando, inaspettatamente, Erdogan conquistò il potere promettendo maggiori libertà e tutela delle minoranze. Nessuno avrebbe immaginato che l’islamismo autoritario si sarebbe spinto a negare radicalmente lo sterminio degli armeni (lo fece anche respingendo una risoluzione del Parlamento europeo) che dopo un secolo attendono ancora delle scuse, oltre ai doverosi indennizzi.

Il Bundestag ha votato una mozione, quasi all’unanimità, nella quale viene definito “genocidio” l’orrenda mattanza che fece circa un milione di morti. La Germania, amica storica della Turchia, si è dunque inequivocabilmente pronunciata e, sia pure tardivamente, si è allineata a quasi tutti i Paesi che da tempo hanno riconosciuto l’orrendo misfatto. Erdogan, com’è sua abitudine, ha immediatamente mostrato i muscoli ed ha reagito richiamando l’ambasciatore a Berlino. Una mossa poco accorta che rivela una volta di più lo spirito del leader turco nei confronti di chi osa pensarla in maniera differente sulla base di inoppugnabili dati di fatto.

L’arroganza di Erdogan è probabile che piaccia alla maggior parte dei suoi connazionali, ma certo non può essere accettata come se fosse un estemporaneo atto d’intemperanza da tutti coloro che con la Turchia hanno quotidianamente a che fare, prima di tutto la Germania stessa dove è allocata la più numerosa comunità turca in Europa.

La “questione armena”, al di là delle implicazioni storiche e morali, doveva essere – e lo è stata – il banco di prova dell’affidabilità di Erdogan il quale non può pensare di “comprare” il silenzio e la verità a suon di commesse commerciali. Che la Germania sia il primo partner economico della Turchia, non significa che debba tenere la bocca chiusa sui misfatti di un regime che certo non si sta facendo amare. Erdogan sta sbaraccando le impalcature statali edificate da Ataturk; sta rinnegando la laicità che il “padre della patria” aveva offerto alla composita comunità turca affinché una civile convivenza diventasse davvero praticabile a tutti i livelli dopo gli sconci del decadente impero ottomano; sta rimettendo in circolazione vecchi difetti del potere a cominciare dall’attivismo dei servizi segreti e delle minacce agli spiriti liberi, a cominciare dagli intellettuali.

Quando nel 2003 divenne primo ministro, dopo aver conquistato due anni prima la leadership del suo partito islamico, Erdogan rassicurò amici e nemici, interni ed esterni, che non avrebbe deflettuto dalla linea tracciata da Ataturk. Il suo partito non intendeva rinnegare niente delle realizzazioni civili e sociali in qualche modo tenute in piedi, sia pure con sistemi eterodossi, dalle ricorrenti “parentesi” militari. Tutti gli diedero fiducia, ben sapendo che i prigionieri politici sarebbero rimasti nelle condizioni in cui si trovavano e la questione curda non sarebbe stata risolta nel modo più favorevole. Probabilmente, si disse, sulla via dell’Europa il nuovo leader avrebbe trovato le ragioni della sua centralità politica e le avrebbe utilizzate al meglio. La Turchia poteva davvero diventare la porta laica su un Medio Oriente in fiamme.

Negli ultimi tre anni, dalle proteste di piazza Taksim al voto del Bundestag sul genocidio degli armeni, Erdogan non ha mancato di svelare poco per volta il suo vero volto. E, senza contare l’ambiguo ruolo svolto nell’area irachena-siriana, c’è da essere preoccupati in Europa per la piega che stanno prendendo gli avvenimenti. Qualcuno, forse, nel Consiglio d’Europa, quello che pomposamente si è definito “casa della democrazia”, si accorgerà ora che Vladimir Putin non aveva tutti i torti quando metteva in guardia l’Occidente dalla irresponsabile megalomania di Erdogan.


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