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Tutti contro Matteo Renzi (e la Repubblica di Weimar)

Matteo Renzi

Matteo Renzi ha dichiarato che non si dimetterà se Roberto Giachetti e Giuseppe Sala saranno sconfitti ai ballottaggi di Roma e di Milano (ma, a mio giudizio, rischia molto anche Piero Fassino a quello di Torino). Si tratta di una posizione non solo ineccepibile sul piano formale, ma anche ragionevole sul piano politico. Tuttavia, quando tutte le forze di opposizione si uniscono per abbattere il governo pur disprezzandosi e – talvolta – perfino odiandosi reciprocamente, c’è da essere preoccupati. Ogni paragone storico ha sempre un che di arbitrario, ma ricordo che fu proprio la logica delle opposizioni pregiudiziali ad accelerare il crollo della Repubblica di Weimar nel 1933. Per evitare il ripetersi di una simile esperienza, la Germania democratica postbellica si è dotata dell’istituto della sfiducia costruttiva.

È questa rete di protezione che ancora manca al presidente del Consiglio. Non ha avuto il coraggio di introdurla nella riforma costituzionale (forse per il timore di prestare il fianco all’accusa di coltivare un progetto neoautoritario, che invece gli è piovuta addosso lo stesso). Come non ha avuto il coraggio di abolire in modo secco il Senato, tagliando alla radice una fonte di interminabili polemiche dottrinarie e di equivoci istituzionali (sono dunque riserve anche severe, le mie, che però non mi impediscono di cogliere gli aspetti positivi della riforma, la quale vedrà il mio sì al referendum di ottobre).

Riflettiamo su un punto. Il meccanismo del “simul stabunt simul cadent”, che vale per i sindaci e i governatori, non esiste per il capo del governo nazionale. Anche domani, ammesso che sia l’Italicum a scegliere l’inquilino di Palazzo Chigi, le sue sorti dipenderanno dalla coesione del partito di cui è espressione. Per non parlare di Silvio Berlusconi, tradito perfino all’interno del suo partito personale, non si può certo sorvolare su un dato di fatto, ovvero che le insidie peggiori per Renzi sono venute (e continuano a venire) proprio dai ranghi di quella stessa ditta pure condotta al traguardo inimmaginabile del quaranta per cento.

Come già accade a Berlino e a Londra, l’unica garanzia per il governo consisterebbe nel legarne il destino a quello del Parlamento. Costringendo così la maggioranza elettorale a restare unita, pena la decadenza di tutti i componenti della Camera. È questa la condizione irrinunciabile perché il premier possa, anche in Italia, contare sulla certezza del mandato. Adesso il potere del nostro attuale premier è affidato alle sue capacità personali di comunicatore e di abile manovratore. E, ancor più, all’assenza di un’alternativa credibile. Ma tali risorse non sono illimitate. Anzi, si stanno velocemente assottigliando.

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