Tanto tuonò che piovve, si potrebbe dire anche delle elezioni amministrative di questo tormentato 2016, oltre che della pioggia e della neve fuori stagione appena cadute sull’Italia.
Beppe Grillo, il comico che s’inventò un movimento stellare solo sette anni fa, stravincendo nei ballottaggi di Roma e Torino, e in altri 17 dei venti Comuni in cui i suoi candidati hanno potuto giocare anche il secondo tempo della partita elettorale di giugno, ha avuto il suo sdoganamento come forza di governo, per ora anche in grandi città quali la capitale d’Italia e la ex roccaforte comunista del Piemonte, dopo Parma, Livorno e qualche frattaglia. Uno sdoganamento che ricorda un po’ quello ottenuto nelle elezioni amministrative del 1993 da un’altra forza di contestazione al sistema: la destra post-fascista che Gianfranco Fini aveva ereditato da Giorgio Almirante.
In quelle elezioni, a dire il vero, Fini perse il ballottaggio capitolino col candidato delle sinistre Francesco Rutelli. Ma il voto virtuale datogli dall’allora elettore milanese Silvio Berlusconi con dichiarazioni studiate a tavolino, mentre lo stesso Berlusconi preparava la sua felice irruzione nella politica, sdoganò Fini e la sua parte politica, appunto, come forza di governo dopo decenni di opposizione e di isolamento. Bastarono due mesi perché Berlusconi vincesse le elezioni politiche anticipate in alleanza con Fini, oltre che con Bossi, e gli ancora missini, prima ancora di cambiare nome e simbolo al loro vecchio partito, si trovassero al governo, addirittura con un vice presidente del Consiglio. Che fu Giuseppe Tatarella. Anche i leghisti ottennero il loro battesimo governativo, fra l’altro con Roberto Maroni al Ministero chiave dell’Interno.
Grillo, con i suoi soli e già ricordati sette anni di anzianità politica, non ha avuto bisogno di un Berlusconi che lo sdoganasse, anche se la manina del centrodestra – come vedremo – si è vista nella vittoria delle due candidate pentastellate a Roma e a Torino. Lo sdoganamento lo ha avuto direttamente dagli elettori, ai quali il ricciolutissimo Beppe dovrà ora dimostrare di essersi meritata la fiducia così copiosamente ricevuta. Il che dovrebbe obbligarlo a fare meno il comico e più il politico, più a guidare che a possedere il suo movimento col figlio del socio scomparso di recente, più a studiare che a improvvisare, più a selezionare candidati validi e preparati, come hanno dato l’impressione di essere, a torto o a ragione, le due sindache, o sindachesse, appena elette a Roma e a Torino, che a farle uscire casualmente da una selezione affidata a poche centinaia di persone che sanno smanettare i computer.
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Il contributo degli elettori di centrodestra alla nettissima vittoria di Virginia Raggi a Roma e di Chiara Appendino a Torino è stato di doppia fattura. O gli elettori di centrodestra nelle due città non sono andati a votare, contribuendo ad abbassare di molto l’affluenza alle urne, e in proporzione ad aumentare la percentuale di distacco fra le due candidate e i loro concorrenti del Pd, o sono andati alle urne per votare le due grilline, piuttosto che i candidati dell’odiato Matteo Renzi.
Si è insomma avverato ciò che avevano preannunciato in campagna elettorale i vari Matteo Salvini, Gianni Alemanno, Mariastella Gelmini e Renato Brunetta, spintisi nell’antirenzismo più ancora di Giorgia Meloni. Che nel secondo tempo della campagna elettorale, dopo avere perduto la corsa verso il ballottaggio, aveva prudentemente – una volta tanto – ritirato certe aperture fatte ai grillini a metà maggio.
Il favore fatto ai pentastellati dalle anime belle e vacuamente virili del centrodestra è stato purtroppo a senso unico. I grillini, sempre solitari nelle loro corse, a livello non solo nazionale ma anche locale, non hanno ricambiato. Il loro antirenzismo non li ha portati, per esempio, a dare una mano a Milano al candidato del centrodestra Stefano Parisi, sconfitto dal renziano Beppe Sala.
Sì, so bene che a Milano gli elettori grillini sono poca cosa, ma non così pochi da essere ininfluenti nella partita di Palazzo Marino. I punti di distacco fra Sala e Parisi sono stati solo tre. I grillini sarebbero pertanto bastati e avanzati per impedire a Renzi di mitigare, con il successo a Milano, la “sconfitta senza attenuanti” subita altrove e ammessa dallo stesso Pd con una nota ufficiale. Una sconfitta sulla quale è stata annunciata una “riflessione” in una riunione di direzione del partito convocata per venerdì.
Sull’odio per Renzi è evidentemente prevalso, fra i grillini, quello per Berlusconi, al quale d’altronde il pentastellato Alessandro Di Battista, alla vigilia del delicato intervento chirurgico al cuore, aveva augurato di poter “tornare presto a casa, in tutti i sensi”.
Ora una riflessione dovrebbe imporsi anche nel centrodestra. Dovrebbero farla sia Salvini, che peraltro ha preso una bella botta anche a Varese, dove la Lega soleva andare a cavallo, sia il convalescente Berlusconi, che a Milano si era speso moltissimo, anche in ospedale.
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Quali saranno o potranno essere gli effetti dei risultati delle elezioni amministrative sul referendum costituzionale di autunno, sul quale Renzi ha scommesso la sua residua popolarità e carriera politica, è difficile e prematuro dire. Ad occhio e croce, la rottamazione del Pd a Roma, Torino, Napoli e altrove, per usare un’immagine cara allo stesso Renzi, ed evocata a suo danno anche dagli editorialisti dei due maggiori quotidiani italiani, Massimo Franco sul Corriere della Sera e Stefano Folli su Repubblica, è un brutto segnale d’allarme per il presidente del Consiglio. Che Claudio Cerasa sul simpatizzante Foglio, prima ancora di conoscere l’esatta portata della sconfitta subìta dal partito di Renzi, ha esortato ad una svolta, più operosa che verbale. Cioè, più realizzando le riforme che annunciandole per lasciarle poi languire in Parlamento, a cominciare da quella della giustizia, della spesa e della concorrenza.
Di nessuna riflessione, per chiudere, non ha bisogno a Napoli il sindaco confermato Luigi de Magistris. Che ha avuto la disinvoltura di compiacersi di una stravittoria conseguita sul concorrente del centrodestra Gianni Lettieri con un veramente misero 36 per cento di affluenza alle urne. Un 36 per cento di fronte al quale il 66,8 per cento di voti da lui vantato vale solo un terzo.
Anche da sindaco de Magistris ha evidentemente conservato la spavalderia umorale, spesso persino inconsapevole, di quando era pubblico ministero e collezionava rumorose indagini.